Quella di ieri è stata una giornata fondamentale per la questione birmana. L’inviato delle Nazioni Unite, Gambari, ha infatti portato a termine la sua missione ed è ripartito nel pomeriggio. In mattinata il diplomatico nigeriano ha incontrato il leader della giunta militare, Than Shwe, e prima di lasciare il paese ha avuto un secondo colloquio con Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione e premio Nobel per la pace. Sempre più frammentarie, intanto, le notizie riguardanti la protesta degli “arancioni”: secondo alcune voci, i monaci starebbero per arrendersi in ottemperanza alle direttive dei propri superiori gerarchici. In ambito diplomatico, invece, prosegue il dibattito sulle iniziative da intraprendere contro la dittatura militare: Cina e Russia, come da copione, ostentano freddezza.
Andiamo con ordine. Ieri mattina Ibrahim Gambari ha incontrato il generale Than Shwe, nel corso del quarto ed ultimo giorno della propria missione per conto dell’Onu. Nulla è trapelato sul contenuto del colloquio: lo scopo di Gambari era quello di convincere il leader della giunta a porre fine alla repressione, facendosi portavoce del dissenso internazionale. Un comunicato ufficiale delle Nazioni Unite parla genericamente di discussione sull’attuale situazione in Myanmar. È lo stesso comunicato a rendere poi conto del secondo appuntamento della giornata di ieri, quello con la dissidente Aung San Suu Kyi: nessuna informazione, ancora una volta, sul temi dibattuti con il premio Nobel per la pace. Gambari è poi decollato con il suo aereo: il programma prevede per oggi un faccia a faccia con il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong. Domani farà invece ritorno New York: al Palazzo di Vetro lo attende il segretario generale delle Nazioni Unite, al quale dovrà rendere conto dei quattro giorni trascorsi in Myanmar.
Per quanto riguarda il proseguo della ribellione, le notizie sono variegate e frammentarie. Secondo alcuni i monaci avrebbero messo un freno alla propria protesta: nulla di ufficiale, ma maggior calma e minore presenza di forze dell’ordine sembrano confermarlo. Ieri la giunta militare ha inoltre annunciato una riduzione del coprifuoco notturno, dalle 22.00 alle 4.00 anziché dalle 21.00 alle 5.00. Arresti ed intimidazioni da parte della giunta continuerebbero però a Yangon e Ragoon. La “Reuters” ha sentito telefonicamente l’incaricato d’affari Usa, Shari Villarosa: “Abbiamo sentito che gli arresti sono continuati per tutta la notte, sino alle due del mattino. Abbiamo sentito che si tratta di militari. Non so chi li stia facendo ma c'è gente che va in giro nel pieno della notte portando via delle persone. La gente è terrorizzata. Questo governo mantiene il potere con la paura e l'intimidazione e stanno tentando di intimidire le persone perché si tengano lontane dalle strade”. “Mizzima” ha invece intervistato un residente della capitale, secondo il quale “tanto la polizia quanto l’esercito si possono ancora vedere nella città. Le forze di sicurezza stanno conducendo ricerche a tappeto e interrogatori”. Se il dispiegamento delle forze dell’ordine sta complessivamente scemando, elevato resta però lo stato d’allerta nelle principali città.
Sul fronte della repressione, si moltiplicano dati e supposizioni. Secondo fonti birmane e delle Nazioni Unite, 1700 arrestati – tra cui 500 monaci buddisti e 200 donne – sarebbero inizialmente stati rinchiusi nel Government Technical Institute di Ragoon. I monaci sarebbero stati imprigionati, nudi, in una stanza comune senza finestre: in segno di protesta, avrebbero rifiutato il cibo. Da fonti australiane giunge un’altra importante informazione quantitativa: le persone uccise sarebbero almeno 30. Il ministro degli esteri australiano Alexander Downe, interpellato dalla radio “Abc” riguardo il dato ufficiale di soli 10 morti, ha invece dichiarato che “possono essere multipli di 10, o anche di più”. L’agenzia di stampa “Mizzima” continua intanto a pubblicare fotografie di morti e feriti: un’immagine raccapricciante mostra il cadavere di un monaco, gettato in una pozza fangosa, in evidente stato di decomposizione.
Continuano incessanti, infine, i giochi diplomatici. U Nyan Win, ministro degli esteri birmano, ha parlato all’assemblea generale delle Nazioni Unite: i responsabili della repressione attuata nel suo paese, secondo il diplomatico, sarebbero dei non meglio precisati “opportunismi politici” appoggiati da “paesi forti”. U Nyan Win ha poi messo in guardia la comunità internazionale sull’inutilità delle sanzioni, che potrebbero solo peggiorare le cose. Per quanto concerne le risposte concrete al regime, in prima linea c’è sempre l’Australia. Il governo australiano ha infatti rifiutato la nomina di un ex-militare birmano come ambasciatore del Myanmar nel proprio paese, per poi mettere definitivamente in chiaro che “in nessuna circostanza accetteremmo come ambasciatore un esponente del loro regime militare”. Una pratica, quella del rifiutare un ambasciatore, desueta ma fondamentale per sottolineare che quello della giunta al potere in Birmania “é un comportamento inaccettabile”.
Sul fronte opposto a quello dell’interventismo australiano, l’asse Russia-Cina. Entrambi i paesi invitano il regime alla “moderazione”, ma quando si tratta di discutere sanzioni concrete cercano di rimandare ogni decisione. Dietro alla cautela nei confronti della giunta militare birmana, motivazioni di carattere diverso. Primo: la Russia, ma soprattutto la Cina, è un partner commerciale del Myanmar e non intende danneggiare il proprio commercio. Secondo: i due paesi vogliono fare da contrappeso all’interventismo europeo ed americano, in un’ottica di equilibri internazionali. Terzo: quello che è successo in Birmania contro la giunta militare potrebbe accadere un giorno in Tibet, con un’altra insurrezione di monaci buddisti – questa volta contro il governo cinese –. Un’eventualità di cui, a pochi mesi dalle Olimpiadi, il gigante asiatico non vuole neppure sentir parlare.
Andiamo con ordine. Ieri mattina Ibrahim Gambari ha incontrato il generale Than Shwe, nel corso del quarto ed ultimo giorno della propria missione per conto dell’Onu. Nulla è trapelato sul contenuto del colloquio: lo scopo di Gambari era quello di convincere il leader della giunta a porre fine alla repressione, facendosi portavoce del dissenso internazionale. Un comunicato ufficiale delle Nazioni Unite parla genericamente di discussione sull’attuale situazione in Myanmar. È lo stesso comunicato a rendere poi conto del secondo appuntamento della giornata di ieri, quello con la dissidente Aung San Suu Kyi: nessuna informazione, ancora una volta, sul temi dibattuti con il premio Nobel per la pace. Gambari è poi decollato con il suo aereo: il programma prevede per oggi un faccia a faccia con il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong. Domani farà invece ritorno New York: al Palazzo di Vetro lo attende il segretario generale delle Nazioni Unite, al quale dovrà rendere conto dei quattro giorni trascorsi in Myanmar.
Per quanto riguarda il proseguo della ribellione, le notizie sono variegate e frammentarie. Secondo alcuni i monaci avrebbero messo un freno alla propria protesta: nulla di ufficiale, ma maggior calma e minore presenza di forze dell’ordine sembrano confermarlo. Ieri la giunta militare ha inoltre annunciato una riduzione del coprifuoco notturno, dalle 22.00 alle 4.00 anziché dalle 21.00 alle 5.00. Arresti ed intimidazioni da parte della giunta continuerebbero però a Yangon e Ragoon. La “Reuters” ha sentito telefonicamente l’incaricato d’affari Usa, Shari Villarosa: “Abbiamo sentito che gli arresti sono continuati per tutta la notte, sino alle due del mattino. Abbiamo sentito che si tratta di militari. Non so chi li stia facendo ma c'è gente che va in giro nel pieno della notte portando via delle persone. La gente è terrorizzata. Questo governo mantiene il potere con la paura e l'intimidazione e stanno tentando di intimidire le persone perché si tengano lontane dalle strade”. “Mizzima” ha invece intervistato un residente della capitale, secondo il quale “tanto la polizia quanto l’esercito si possono ancora vedere nella città. Le forze di sicurezza stanno conducendo ricerche a tappeto e interrogatori”. Se il dispiegamento delle forze dell’ordine sta complessivamente scemando, elevato resta però lo stato d’allerta nelle principali città.
Sul fronte della repressione, si moltiplicano dati e supposizioni. Secondo fonti birmane e delle Nazioni Unite, 1700 arrestati – tra cui 500 monaci buddisti e 200 donne – sarebbero inizialmente stati rinchiusi nel Government Technical Institute di Ragoon. I monaci sarebbero stati imprigionati, nudi, in una stanza comune senza finestre: in segno di protesta, avrebbero rifiutato il cibo. Da fonti australiane giunge un’altra importante informazione quantitativa: le persone uccise sarebbero almeno 30. Il ministro degli esteri australiano Alexander Downe, interpellato dalla radio “Abc” riguardo il dato ufficiale di soli 10 morti, ha invece dichiarato che “possono essere multipli di 10, o anche di più”. L’agenzia di stampa “Mizzima” continua intanto a pubblicare fotografie di morti e feriti: un’immagine raccapricciante mostra il cadavere di un monaco, gettato in una pozza fangosa, in evidente stato di decomposizione.
Continuano incessanti, infine, i giochi diplomatici. U Nyan Win, ministro degli esteri birmano, ha parlato all’assemblea generale delle Nazioni Unite: i responsabili della repressione attuata nel suo paese, secondo il diplomatico, sarebbero dei non meglio precisati “opportunismi politici” appoggiati da “paesi forti”. U Nyan Win ha poi messo in guardia la comunità internazionale sull’inutilità delle sanzioni, che potrebbero solo peggiorare le cose. Per quanto concerne le risposte concrete al regime, in prima linea c’è sempre l’Australia. Il governo australiano ha infatti rifiutato la nomina di un ex-militare birmano come ambasciatore del Myanmar nel proprio paese, per poi mettere definitivamente in chiaro che “in nessuna circostanza accetteremmo come ambasciatore un esponente del loro regime militare”. Una pratica, quella del rifiutare un ambasciatore, desueta ma fondamentale per sottolineare che quello della giunta al potere in Birmania “é un comportamento inaccettabile”.
Sul fronte opposto a quello dell’interventismo australiano, l’asse Russia-Cina. Entrambi i paesi invitano il regime alla “moderazione”, ma quando si tratta di discutere sanzioni concrete cercano di rimandare ogni decisione. Dietro alla cautela nei confronti della giunta militare birmana, motivazioni di carattere diverso. Primo: la Russia, ma soprattutto la Cina, è un partner commerciale del Myanmar e non intende danneggiare il proprio commercio. Secondo: i due paesi vogliono fare da contrappeso all’interventismo europeo ed americano, in un’ottica di equilibri internazionali. Terzo: quello che è successo in Birmania contro la giunta militare potrebbe accadere un giorno in Tibet, con un’altra insurrezione di monaci buddisti – questa volta contro il governo cinese –. Un’eventualità di cui, a pochi mesi dalle Olimpiadi, il gigante asiatico non vuole neppure sentir parlare.
L'Occidentale