Il 28 novembre l'Italia celebra il centenario della nascita di Alberto Moravia: sono molte le iniziative per ricordare uno degli autori maggiormente significativi – e prolifici – della letteratura italiana novecentesca. Solo sul fronte editoriale, Bompiani ha appena pubblicato un romanzo inedito ("Due amici", scritto negli anni cinquanta e rinvenuto nel 1995, in una valigia appartenuta all'autore) e una riedizione del suo romanzo d'esordio, "Gli Indifferenti" (pubblicato nel 1929, eccezionale capostipite del realismo letterario anni trenta), con tanto di audiolibro in sei cd. Non bisogna dimenticare però che Alberto Moravia è stato anche un grandissimo reporter.
La letteratura italiana vanta molti casi di scrittori prestati al giornalismo: si pensi solo a Edmondo De Amicis e al successo dei suoi reportages, pubblicati da Treves. Moravia è un grande di questo filone, fedele collaboratore del "Corriere del Sera" per gran parte della sua vita: parlare di lui e della sua attività culturale significa allora leggere un attento testimone del Novecento. La storia del reportage italiano si potrebbe suddividere in tre fasi. In origine ci sono i grandi reporter, inviati in giro per il mondo dai maggiori quotidiani italiani: si pensi a Barzini, Vergani, Fraccaroli e Tomaselli. La seconda fase del reportage vede invece il reporter affiancato da uno scrittore: l'idea è quella di giungere a corrispondenze maggiormente letterarie, con note di colore (garantite dalla presenza del letterato) a coronamento del resoconto dei fatti (dei quali si occupa il giornalista). La terza ed ultima fase, infine, si sviluppa quando tutto il mondo è stato esplorato e raccontato: a partire è allora il solo scrittore, che valorizza l'aspetto letterario del viaggio. Protagonisti della terza fase sono celebri autori del calibro di Anna Maria Ortese (che raccontò l'Unione Sovietica per "L'Europeo"), Alberto Arbasino (celebre, ad esempio, il viaggio di formazione in Grecia raccontato in "Dall'Ellade a Bisanzio), Pier Paolo Pasolini (del quale è stato recentemente pubblicato lo splendido reportage dai litorali italiani, "La lunga strada di sabbia") e, appunto, il nostro Alberto Moravia.
Per farsi un'idea degli interessi e dei luoghi toccati dallo scrittore romano, basta dare un'occhiata al catalogo Bompiani. C'è prima di tutto molta Africa, grande amore dell'autore: "A quale tribù appartieni?", una serie di corrispondenze pubblicate dal "Corriere" tra il 1963 e il 1972 in cui lo scrittore descrive l'Africa post-coloniale, "Lettere dal Sahara", che raccoglie le corrispondenze scritte tra il 1975 e il 1981 (dopo il viaggio, ebbe a dire che l'odore del continente nero "non si dimentica mai"), e "Passeggiate Africane". Poi c'è l'Unione Sovietica: "Un mese in URSS", diario di un viaggio compiuto nel 1958, e "L'inverno nucleare", che raccoglie articoli e interviste del periodo 1982-1985 (Moravia parla, tra gli altri, con Ernst Junger, il professor Kato, il reverendo Shimizu e il bonzo Morimoto) per giungere ad un'articolata riflessione sul rischio di un suicidio nucleare collettivo. Non manca infine la politica: in "Diario europeo", il giornalista Moravia racconta un anno (il 1984) da parlamentare europeo.
Molte sono le riviste che sono fregiate della sua penna: il "Corriere della Sera", certo, ma anche "Oggi" di Pannunzio, la "Gazzetta del Popolo", "Caratteri", "Omnibus" di Longanesi, "Pospettive" di Malaparte, il "Popolo di Roma" di Alvaro, "L'Espresso" (per il quale fa il critico cinematografico) e "Nuovi Argomenti", da lui stesso fondata insieme a Carocci. Un'intensa attività giornalistica che ben presto si scontrò con il fascismo e le leggi razziali: dai primi anni '40 – mentre i suoi libri sono già censurati dalla "Commissione per la bonifica libraria" in quanto "autore ebreo" –, Moravia si trova costretto a scrivere sotto pseudonimi: Pseudo, Tobia Merlo, Lorenzo Diodati e Giovanni Trasone.
Fatta eccezione per il periodo della fuga dai nazisti negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, moltissimi sono stati i suoi viaggi: Gran Bretagna, Messico e Stati Uniti, Cina, Grecia, Brasile, Iran, Giappone e ancora tanta Africa e tanta Russia (ai tempi, Unione Sovietica). Tutti questi viaggi Moravia li ha raccontati in pagine bellissime. E tra tutte le sue avventure, una in particolare merita di essere raccontata: il viaggio in India in compagnia di Pier Paolo Pasolini.
L'India, per l'Occidente, è un luogo mitico e fiabesco: da quando Quinto Curzio Rufo, nel I secolo d.C., parlò delle affascinanti bellezze orientali e delle inestimabili ricchezze dei sultani, quel mondo non ha mai smesso di affascinare gli occidentali. In molti ne parleranno: tra gli altri Marco Polo – per il quale il valore delle perle di un marajà superava quello di una città –, Cristoforo Colombo – che partirà alla ricerca di quelle ricchezze, salvo poi finire in America –, Kipling – forse il maggior responsabile dell'idea dell'India che hanno gli europei – e via fino a Salgari.
Nel 1961, tempo prima che i Beatles ci vadano a meditare, il "Corriere delle Sera" manda Moravia in India per una serie di reportage: dal 19 febbraio al 30 luglio lo scrittore sforna undici pezzi, poi lievemente ritoccati per la pubblicazione in volume del 1962 ("Un'idea dell'India", Bompiani). E nello stesso periodo un giornale al tempo molto in voga, "Il Giorno", manda in India – a fare compagnia, e concorrenza, a Moravia – un altro grande scrittore: Pier Paolo Pasolini, che raccoglierà le sue impressioni in sei "puntate" anch'esse pubblicate in volume ("L'odore dell'India", Longanesi).
Lo spunto per il viaggio dei due intellettuali è un convegno organizzato per il centenario della nascita del poeta Tagore. La partenza è fissata per il 31 dicembre 1960: il primo gennaio 1962 i due scrittori sono a Bombay, dove alloggiano al celebre Taj Mahal. Tra una sessione del convegno e l'altra, c'è tempo per un'escursione aerea ad Aurangabad: qui Moravia inizia la sua corrispondenza per il giornale. Poi, il 10 gennaio, eccolo a Nuova Delhi dove incontra Nehru, primo ministro indiano ed erede spirituale di Gandhi.
Nehru colpisce molto Moravia: "La fronte è alta, serena, armoniosa; gli occhi, molto scuri, hanno uno sguardo inquieto, acuto, ambiguo; la bocca ha un'espressione al tempo stesso benevola, annoiata e dura". Ma, messa a parte l'emozione, lo scrittore veste i pani del reporter intervistatore per verificare se nel politico indiano fossero presenti "i tre caratteri che gli attribuiscono": "La vanità dell'uomo che sa di essere attraente e pieno di fascino; la facilità all'impazienza e alla collera del demiurgo liberale (…); l'inclinazione alla noia dell'uomo pubblico". Nerhu è così? Solo in parte: quello che nota il giornalista Moravia è prima tutto un grande magnetismo, proprio solo dei grandi leader.
Ma prima dell'incontro con Nehru, Moravia ha parlato dei roghi di Benares. Le pire funerarie della città sacra – che tanta liricità destano nel resoconto di Pasolini – sono per Moravia lo spunto per parlare della concezione della vita nella società indiana, che "rappresenta per l'europeo al tempo stesso un paradosso e una tentazione, nel senso che essa è non soltanto il contrario della sua ma anche la sola alla quale in un momento di stanchezza e di disgusto egli possa ricorrere con qualche utilità". Moravia, da giornalista, non si lascia emozionare troppo dai corpi che bruciano e riesce a descriverli con grande professionalità: "Le fiamme divampano in un'oscurità completa; alla loro luce rossa e mobile si intravede, intorno al rogo, un cerchio di persone accoccolate sui calcagni, immobili, non tanto raccolte o meditabonde quanto indifferenti". E non c'è troppo da essere tristi, se è vero che "in quel rogo, secondo una nota sentenza, non si consuma una persona unica e irripetibile bensì un vestito logoro, che non serviva più, una pelle vecchia abbandonata per una nuova".
Per tutte le dodici sezioni che compongono il reportage, Moravia segue sempre la stessa linea: parte dall'esperienza diretta, per fornire una guida turistico-intellettuale al lettore interessato alla regione indiana. Riflette sul politeismo – materializzato in templi magnifici –, sulla povertà – le cui cause, secondo l'autore, sono il sistema delle caste, la superstizione, la dominazione inglese e la situazione geofisica – piuttosto che sul concetto d'impurità. Ma dietro alle idee, la fisicità del lungo viaggio indiano si riesce sempre a toccare con mano.
"Un'idea dell'India" è solo una delle tante prove giornalistiche di Moravia. Ma è anche emblematica nel ricordare a tutti noi come i più grandi reportages della storia siano sempre emersi dall'unione di due fattori fondamentali: il rigore giornalistico e la genialità dello scrittore. Così era per Moravia, così per Hemingway e avanti fino alla Fallaci. Ricordare Moravia oggi, a cento anni dalla nascita, è ricordare anche una stagione magnifica: quando il giornalismo, non ancora soffocato dalla televisione, sapeva ergersi al rango della letteratura lasciando un segno nella storia.
La letteratura italiana vanta molti casi di scrittori prestati al giornalismo: si pensi solo a Edmondo De Amicis e al successo dei suoi reportages, pubblicati da Treves. Moravia è un grande di questo filone, fedele collaboratore del "Corriere del Sera" per gran parte della sua vita: parlare di lui e della sua attività culturale significa allora leggere un attento testimone del Novecento. La storia del reportage italiano si potrebbe suddividere in tre fasi. In origine ci sono i grandi reporter, inviati in giro per il mondo dai maggiori quotidiani italiani: si pensi a Barzini, Vergani, Fraccaroli e Tomaselli. La seconda fase del reportage vede invece il reporter affiancato da uno scrittore: l'idea è quella di giungere a corrispondenze maggiormente letterarie, con note di colore (garantite dalla presenza del letterato) a coronamento del resoconto dei fatti (dei quali si occupa il giornalista). La terza ed ultima fase, infine, si sviluppa quando tutto il mondo è stato esplorato e raccontato: a partire è allora il solo scrittore, che valorizza l'aspetto letterario del viaggio. Protagonisti della terza fase sono celebri autori del calibro di Anna Maria Ortese (che raccontò l'Unione Sovietica per "L'Europeo"), Alberto Arbasino (celebre, ad esempio, il viaggio di formazione in Grecia raccontato in "Dall'Ellade a Bisanzio), Pier Paolo Pasolini (del quale è stato recentemente pubblicato lo splendido reportage dai litorali italiani, "La lunga strada di sabbia") e, appunto, il nostro Alberto Moravia.
Per farsi un'idea degli interessi e dei luoghi toccati dallo scrittore romano, basta dare un'occhiata al catalogo Bompiani. C'è prima di tutto molta Africa, grande amore dell'autore: "A quale tribù appartieni?", una serie di corrispondenze pubblicate dal "Corriere" tra il 1963 e il 1972 in cui lo scrittore descrive l'Africa post-coloniale, "Lettere dal Sahara", che raccoglie le corrispondenze scritte tra il 1975 e il 1981 (dopo il viaggio, ebbe a dire che l'odore del continente nero "non si dimentica mai"), e "Passeggiate Africane". Poi c'è l'Unione Sovietica: "Un mese in URSS", diario di un viaggio compiuto nel 1958, e "L'inverno nucleare", che raccoglie articoli e interviste del periodo 1982-1985 (Moravia parla, tra gli altri, con Ernst Junger, il professor Kato, il reverendo Shimizu e il bonzo Morimoto) per giungere ad un'articolata riflessione sul rischio di un suicidio nucleare collettivo. Non manca infine la politica: in "Diario europeo", il giornalista Moravia racconta un anno (il 1984) da parlamentare europeo.
Molte sono le riviste che sono fregiate della sua penna: il "Corriere della Sera", certo, ma anche "Oggi" di Pannunzio, la "Gazzetta del Popolo", "Caratteri", "Omnibus" di Longanesi, "Pospettive" di Malaparte, il "Popolo di Roma" di Alvaro, "L'Espresso" (per il quale fa il critico cinematografico) e "Nuovi Argomenti", da lui stesso fondata insieme a Carocci. Un'intensa attività giornalistica che ben presto si scontrò con il fascismo e le leggi razziali: dai primi anni '40 – mentre i suoi libri sono già censurati dalla "Commissione per la bonifica libraria" in quanto "autore ebreo" –, Moravia si trova costretto a scrivere sotto pseudonimi: Pseudo, Tobia Merlo, Lorenzo Diodati e Giovanni Trasone.
Fatta eccezione per il periodo della fuga dai nazisti negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, moltissimi sono stati i suoi viaggi: Gran Bretagna, Messico e Stati Uniti, Cina, Grecia, Brasile, Iran, Giappone e ancora tanta Africa e tanta Russia (ai tempi, Unione Sovietica). Tutti questi viaggi Moravia li ha raccontati in pagine bellissime. E tra tutte le sue avventure, una in particolare merita di essere raccontata: il viaggio in India in compagnia di Pier Paolo Pasolini.
L'India, per l'Occidente, è un luogo mitico e fiabesco: da quando Quinto Curzio Rufo, nel I secolo d.C., parlò delle affascinanti bellezze orientali e delle inestimabili ricchezze dei sultani, quel mondo non ha mai smesso di affascinare gli occidentali. In molti ne parleranno: tra gli altri Marco Polo – per il quale il valore delle perle di un marajà superava quello di una città –, Cristoforo Colombo – che partirà alla ricerca di quelle ricchezze, salvo poi finire in America –, Kipling – forse il maggior responsabile dell'idea dell'India che hanno gli europei – e via fino a Salgari.
Nel 1961, tempo prima che i Beatles ci vadano a meditare, il "Corriere delle Sera" manda Moravia in India per una serie di reportage: dal 19 febbraio al 30 luglio lo scrittore sforna undici pezzi, poi lievemente ritoccati per la pubblicazione in volume del 1962 ("Un'idea dell'India", Bompiani). E nello stesso periodo un giornale al tempo molto in voga, "Il Giorno", manda in India – a fare compagnia, e concorrenza, a Moravia – un altro grande scrittore: Pier Paolo Pasolini, che raccoglierà le sue impressioni in sei "puntate" anch'esse pubblicate in volume ("L'odore dell'India", Longanesi).
Lo spunto per il viaggio dei due intellettuali è un convegno organizzato per il centenario della nascita del poeta Tagore. La partenza è fissata per il 31 dicembre 1960: il primo gennaio 1962 i due scrittori sono a Bombay, dove alloggiano al celebre Taj Mahal. Tra una sessione del convegno e l'altra, c'è tempo per un'escursione aerea ad Aurangabad: qui Moravia inizia la sua corrispondenza per il giornale. Poi, il 10 gennaio, eccolo a Nuova Delhi dove incontra Nehru, primo ministro indiano ed erede spirituale di Gandhi.
Nehru colpisce molto Moravia: "La fronte è alta, serena, armoniosa; gli occhi, molto scuri, hanno uno sguardo inquieto, acuto, ambiguo; la bocca ha un'espressione al tempo stesso benevola, annoiata e dura". Ma, messa a parte l'emozione, lo scrittore veste i pani del reporter intervistatore per verificare se nel politico indiano fossero presenti "i tre caratteri che gli attribuiscono": "La vanità dell'uomo che sa di essere attraente e pieno di fascino; la facilità all'impazienza e alla collera del demiurgo liberale (…); l'inclinazione alla noia dell'uomo pubblico". Nerhu è così? Solo in parte: quello che nota il giornalista Moravia è prima tutto un grande magnetismo, proprio solo dei grandi leader.
Ma prima dell'incontro con Nehru, Moravia ha parlato dei roghi di Benares. Le pire funerarie della città sacra – che tanta liricità destano nel resoconto di Pasolini – sono per Moravia lo spunto per parlare della concezione della vita nella società indiana, che "rappresenta per l'europeo al tempo stesso un paradosso e una tentazione, nel senso che essa è non soltanto il contrario della sua ma anche la sola alla quale in un momento di stanchezza e di disgusto egli possa ricorrere con qualche utilità". Moravia, da giornalista, non si lascia emozionare troppo dai corpi che bruciano e riesce a descriverli con grande professionalità: "Le fiamme divampano in un'oscurità completa; alla loro luce rossa e mobile si intravede, intorno al rogo, un cerchio di persone accoccolate sui calcagni, immobili, non tanto raccolte o meditabonde quanto indifferenti". E non c'è troppo da essere tristi, se è vero che "in quel rogo, secondo una nota sentenza, non si consuma una persona unica e irripetibile bensì un vestito logoro, che non serviva più, una pelle vecchia abbandonata per una nuova".
Per tutte le dodici sezioni che compongono il reportage, Moravia segue sempre la stessa linea: parte dall'esperienza diretta, per fornire una guida turistico-intellettuale al lettore interessato alla regione indiana. Riflette sul politeismo – materializzato in templi magnifici –, sulla povertà – le cui cause, secondo l'autore, sono il sistema delle caste, la superstizione, la dominazione inglese e la situazione geofisica – piuttosto che sul concetto d'impurità. Ma dietro alle idee, la fisicità del lungo viaggio indiano si riesce sempre a toccare con mano.
"Un'idea dell'India" è solo una delle tante prove giornalistiche di Moravia. Ma è anche emblematica nel ricordare a tutti noi come i più grandi reportages della storia siano sempre emersi dall'unione di due fattori fondamentali: il rigore giornalistico e la genialità dello scrittore. Così era per Moravia, così per Hemingway e avanti fino alla Fallaci. Ricordare Moravia oggi, a cento anni dalla nascita, è ricordare anche una stagione magnifica: quando il giornalismo, non ancora soffocato dalla televisione, sapeva ergersi al rango della letteratura lasciando un segno nella storia.
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