04 dicembre 2007

Il dopo Annapolis scuote il Medio Oriente

Mesi di trattative, la conferenza di Annapolis e un obiettivo ambizioso: una pace definitiva nel 2008. Dopo essere stati al centro dell’attenzione mediatica per tre giorni, Israele e i territori palestinesi sembrano essere tornati alla “normalità” della vita quotidiana. Ma la promessa di pace del Maryland, in attesa dei primi incontri ufficiali tra i negoziatori (previsti per il 12 dicembre), è un’ombra con la quale il Medio Oriente inizia già a fare i conti.

Tornato a casa, il premier israeliano Olmert ha subito compiuto due piccoli passi, necessari in vista della partenza ufficiale delle trattative. Primo: domenica il governo ha approvato il documento congiunto partorito dalla conferenza di Annapolis; una formalità, certo, ma viste le critiche dell’opposizione la ratifica ufficiale assume anche un significato simbolico. Secondo: lunedì mattina le prigioni israeliane hanno rilasciato 429 prigionieri palestinesi – per la maggior parte militanti di Fatah –, accolti calorosamente ai check point del West Bank e della Striscia di Gaza. La liberazione dei prigionieri era stata definita prima del vertice americano, come segno di buona disposizione nei confronti di Abu Mazen: il leader dell’Anp, però, aveva chiesto che le scarcerazioni riguardassero 2000 prigionieri.

Poi, al di là dei fatti, c’è la diplomazia. Ehud Olmert ostenta ottimismo, cercando di scacciare le possibilità di un fallimento (che, per il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, “non è un’opzione”). Domenica mattina ha messo le mani avanti, mentre il governo si apprestava ad accogliere il documento di Annapolis: “Faremo uno sforzo per sostenere dei negoziati celeri, nella speranza di raggiungere un accordo nel 2008” ha detto il premier israeliano, salvo poi ribadire che la scadenza non dovrà essere vincolante. Detto questo, però, Olmert ha anche elogiato l’esperienza di Annapolis (“un successo”) e ha criticato i disfattisti: “La gente ha cercato di minimizzare e ignorare Annapolis, ma la presenza di 40 Stati – tra cui i principali Stati arabi – ad una conferenza con il dichiarato intento di fare la pace con Israele è un grande risultato”.

Per dare maggior peso alle sue valutazioni Olmert ha richiamato l’esempio di Ben Gurion, padre della patria, che accettò la risoluzione delle Nazioni Unite sulla divisione dei territori in due Stati confinanti: “Ben Gurion aveva ragione, non c’è altra alternativa”. Richiamando il coraggio di uno dei padri fondatori della patria ebraica, Olmert sembra voler inviare un messaggio di unità ai suoi avversari alla Knesset: ma il leader dell’opposizione Netanyahu, che nei giorni passati aveva accusato Olmert di voler “svendere” lo Stato, ha ribadito il suo pessimismo dichiarando che “i palestinesi vogliono due Stati per un solo popolo: uno Stato palestinese e uno Stato israeliano, inondato di palestinesi grazie a quello che chiamano diritto di ritorno”.

Dei molti oppositori di Olmert, Netanyahu è solo il maggior rappresentante in parlamento: fuori dalla Knesset, le sue idee trovano terreno fertile in una parte consistente dell’opinione pubblica israeliana. Molte delle critiche ad Annapolis vengono poi dagli ebrei ortodossi, che hanno protestato contro l’iniziativa di pace americana davanti al muro del pianto. Il messaggio degli oppositori interni è chiaro: niente concessioni alla controparte. Svariate sono le critiche all’esecutivo: il ministro Barak, ad esempio, è stato recentemente contestato per la sua proposta di compensare in denaro i coloni israeliani che lasceranno spontaneamente gli insediamenti nel West Bank, mentre grande scalpore ha sempre suscitato la possibilità di rinunciare al dominio sui quartieri arabi di Gerusalemme, città ritenuta indivisibile dai partiti di opposizione. Con queste critiche Olmert dovrà fare i conti al più presto: perché le trattative di pace siano utili, infatti, è assolutamente necessario che gran parte della società sostenga il premier e il ministro degli Esteri Tzipi Livni.

Critico nei confronti delle mosse israeliane si è mostrato anche Barghouti, il più celebre detenuto palestinese nelle carceri israeliane. Il leader del braccio armato di Fatah (protagonista di prima e seconda Intifada) ha definito “una presa in giro” la liberazione di soli 429 palestinesi: sulla stessa linea anche parte della stampa israeliana, ma per Olmert andare oltre – viste le forti resistenze in patria – sarebbe stato francamente difficile. Le rimostranze di Barghouti assumono un certo rilievo nelle trattative in quanto il personaggio in questione ha una forte influenza presso i palestinesi e presso alcuni israeliani, che vedrebbero nella sua potenziale (ma sempre smentita) liberazione un grande passo avanti verso la riconciliazione con i vicini di casa.

Sul fronte palestinese, invece, Abu Mazen ha ritrovato le solite due patrie: quella di Fatah, in Cisgiordania, e quella di Hamas, nella Striscia di Gaza. E se Olmert deve ricucire i rapporti con l’opposizione in vista delle tratattive, Abbas si trova a dover riunire addirittura due lembi di terra distanti e governati da forze politiche in rotta di collisione. Hamas ha rifiutato il documento di Annapolis, ha giurato di continuare la sua lotta contro Israele e ha preannunciato una controconferenza, alla quale dovrebbero prendere parte le frange più oltranziste della lotta contro gli israeliani. L’accusa ad Abu Mazen, paradossalmente, fa il paio con quella della destra israeliana a Olmert: svendere lo Stato. Dopo le manifestazioni e le violenze, l’ultima trovata di Hamas per boicottare il ricongiungimento delle due Palestine è il rifiuto di andare avanti sulla via dell’importante censimento dei palestinesi ordinato mesi fa da Abu Mazen: i militanti della Striscia di Gaza, ben consci dell’importanza dell’operazione in vista delle trattative sui confini, cercano di così di ritardare il più possibile il momento della verità.

Particolarmente attenti alla vita del dopo-Annapolis, al di là dei due protagonisti e degli Stati Uniti, sono poi i leader di Stati molto importanti nello scacchiere mediorientale. Abdullah II di Giordania, parlando domenica di fronte al parlamento, ha esortato Israele ad essere coraggioso nelle concessioni e i palestinesi a superare le divisioni interne. Il messaggio per Olmert è chiaro: “Mettere fine all’occupazione delle terre arabe e palestinesi, ritirarsi e applicare le legittime risoluzioni internazionali è l’unico modo per realizzare un pace giusta, definitiva e condivisa”. Per quanto riguarda Abu Mazen, fondamentale è la ricerca dell’unità: “La forza sta nell’unità e la debolezza nelle divisioni; quindi unite i ranghi, e valutate la possibilità di giungere alla pace e stabilire il vostro Stato indipendente nel West Bank e a Gaza”. Parole sagge – pronunciate da un leader segnalatosi per la sua lotta contro l’Islam radicale – che gli stessi Condoleezza Rice potrebbe tranquillamente sottoscrivere.

Sulla questione si è espresso infine il presidente egiziano Mubarak, allargando la sua analisi a tutto il Medio Oriente. Secondo Mubarak, infatti, il successo della conferenza di Annapolis potrebbe portare ad un nuovo equilibrio di pace nella regione: compresa una pacificazione definitiva con Siria e Libano. Per il momento, però, un tale scenario rientra nell’utopia.

L'Occidentale