Su "Libero", Alessandro Gnocchi ci dà qualche anticipazione.
Quando il futuro si fa corto, perché la malattia minaccia la vita, si ripensa al passato, al senso della propria esistenza. E si cerca una risposta alla domanda: chi sono? Per capire chi siamo, dobbiamo forse risalire ai sogni e alle speranze di chi ci ha preceduti nella storia della nostra famiglia. Una storia di cui siamo eredi in ogni senso. Biologico e culturale. Parte da qui il nuovo romanzo della Fallaci, "Un cappello pieno di ciliege" (Rizzoli, pp. 860, euro 25, uscita prevista per mercoledì 30).
«Naturalmente - scrive Oriana - sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l'eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all'enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all'idea di Dio. Espediente mai capito e mai accettato».
Mentre la Fallaci scava nella propria storia, incontra ovviamente anche la Storia d'Italia, perché le vicende personali sono sempre intrecciate e condizionate dai grandi eventi, quelli che conducono all'Unità d'Italia.
È un percorso tribolato, da cui emerge una Fallaci patriota e risorgimentale, anarchica e socialista, illuminista e anti-clericale (ma non irreligiosa).
Dunque non sorprende che i primi eroi del romanzo siano la strana coppia composta da Carlo Fallaci e Caterina Zani, vissuti a cavallo fra il Sette e l'Ottocento. Lui, Carlo, molto credente dopo una gioventù da mangiapreti, è il primo della famiglia a essersi ribellato al giogo imposto dai nobili e dalla Chiesa. Grazie alla cultura: è il primo della famiglia, infatti, ad aver imparato a leggere e scrivere. Lei, Caterina, alter ego della scrittrice, è un personaggio straordinario: discendente di un'eretica sui generis mandata al rogo per aver cotto «un coscio d'agnello» in un giorno di quaresima; analfabeta decisa a imparare a leggere, scrivere e fare di conto; lavoratrice instancabile; esperta di erboristeria e medico autodidatta; atea che rimane incantata da una Madonna di Giotto; al centro della vita sociale perché capace di recitare a memoria brani dell'Inferno e dell'Orlando Furioso.
L'odioso "Nappa" Bonaparte
È lei il motore della famiglia, ed è in lei che con tutta evidenza la Fallaci si rispecchia. È Caterina ad aggredire Napoleone per le vie di Firenze nel 1796. La Fallaci descrive così gli onori coi quali venne accolto il finto liberatore: «Gli stessi onori che, come vedremo, la pronipote della nostra eroina (cioè la Fallaci stessa, ndr) avrebbe visto tributare a Mussolini e Hitler nel 1938». È Caterina a voler cacciare i soldati francesi, una tirannica forza di occupazione che agisce in contrasto col motto "Libertà, Fraternità, Uguaglianza".
La famiglia patriottica resiste all'invasore Napoleone, ed è chiaro il parallelismo con l'altra Resistenza, quella che la scrittrice vivrà in prima persona come staffetta partigiana. Caterina e Carlo parteciperanno all'assalto della gendarmeria di Panzano, presidio francese. Col forcone in mano e gridando «Viva Gesù» in faccia a quei senza dio di francesi che tutti chiamano «nuvoloni» per via delle prime due parole di ogni editto «Nous-voulons», noi vogliamo.
I narcisistidell'Unità
C'è poi, nella seconda parte, la sventurata sorte degli avi del ramo materno, in particolare di Francesco Launaro (1750-1816) e María Ignacia Josepha Montserrat (1770-1814). Francesco, nostromo di lungo corso, è figlio di uno schiavo prigioniero dei barbareschi e cerca vendetta.
Improvvisamente pacificato dopo aver sgozzato venti arabi, mette la testa a posto. Ma si trova costretto a fare un lavoro che detesta, sulle navi dei negrieri, per mantenere la splendida moglie, figlia (rinnegata) di un Grimaldi, nobile genovese e diplomatico alla corte di Spagna.
Nella terza e quarta parte, il Risorgimento è protagonista di moltissime pagine: gli antenati della scrittrice hanno combattuto per liberare la patria dallo straniero «per la giustizia e la libertà, sogni di cui i bugiardi di oggi si servono per dare la scalata al potere».
Sono soprattutto i Cantini, ramo della famiglia da cui discende il nonno materno Augusto, a trovarsi coinvolti nelle guerre napoleoniche, poi nella carboneria e infine nelle guerre d'Indipendenza. Giovanni Cantini segue la sorte di un'intera generazione di toscani e di italiani. Prima carne da macello per l'esercito di Napoleone, detto Nappa, in Spagna e in Germania. Quindi carbonaro (convinto dalle parole del nobile inglese a cui fa da segretario: Percy Bysshe Shelley) e patriota. Nei convulsi rivolgimenti politici, la Fallaci sembra rintracciare un filo comune, un filo forse mai reciso, che potrebbe condurre fino ai nostri giorni.
Il «problema grosso» infatti, a ogni giro della ruota, sono gli eterni voltagabbana italiani. Ecco dunque ex giacobini riciclarsi come restauratori dopo la cacciata dei francesi dalla Toscana. Ma non sono solo aristocratici e funzionari a cambiare casacca con velocità. «Quanto al popolo, guarda: nel voltagabbanismo batteva addirittura i signori», annota Oriana. Ed emergono anche altre caratteristiche della politica nazionale che non sembrano averci mai abbandonati. Ecco quindi Filippo Buonarroti allearsi con La Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Ed ecco le due primedonne accapigliarsi immediatamente. «Appena firmato il patto era esploso l'alterco ideologico sulla parola Uguaglianza. Anzi più che un alterco una rissa accompagnata da reciproci furti di adepti, reciproci insulti, reciproche calunnie ed accuse (...) Porca miseria, che razza di lotta era una lotta i cui capi si azzannavano come cani idrofobi? Che senso aveva sacrificarsi se dai loro sicuri rifugi all'estero quei vanesi seminavano zizzanie e alimentavano meschine rivalità?».
E ancora l'irresponsabilità dei capi: i primi a levare le tende quando le cose si mettono male, come a Livorno nel 1848, quando l'esercito austriaco provvede a ristabilire l'ordine. «Indovina chi fu il primo a svignarsela? (...) Quasi tutti i paladini della resistenza a oltranza. Gli intellettuali, i giornalisti. I discepoli di Mazzini e di Garibaldi e di Marx. Per imbarcarsi sulle navi che a prezzi scandalosi garantivan l'asilo e l'espatrio, da domenica 6 maggio s'erano procurati il passaporto». A difendere Livorno da 25 mila austriaci restarono in 600. Gli altri si erano dileguati.
Poi, nell'ultima parte del libro, incompiuta (alcune pagine sono rimaste manoscritte), c'è l'America, che per Oriana era un'altra patria. E c'è la avventurosa vita della valdese Anastasìa, la bisnonna di Oriana dalla parte del padre. Una vita avventurosa da emigrata prima a New York e quindi all'Ovest, partendo da Torino in cui vigeva la «tirannia della Chiesa sposata allo Stato». Una vita avventurosa come quella della nipote Oriana Fallaci. Anche se il racconto non arriva, come sembrava dovesse essere e come senz'altro era nel progetto iniziale, almeno alla Resistenza, dalle storie degli avi esce proprio Oriana: innamorata della libertà e dell'Italia e dell'America; atea ma attenta alla religione. Intollerante verso chi si riempie la bocca di nobili princìpi al fine di ottenere il potere.
Quando il futuro si fa corto, perché la malattia minaccia la vita, si ripensa al passato, al senso della propria esistenza. E si cerca una risposta alla domanda: chi sono? Per capire chi siamo, dobbiamo forse risalire ai sogni e alle speranze di chi ci ha preceduti nella storia della nostra famiglia. Una storia di cui siamo eredi in ogni senso. Biologico e culturale. Parte da qui il nuovo romanzo della Fallaci, "Un cappello pieno di ciliege" (Rizzoli, pp. 860, euro 25, uscita prevista per mercoledì 30).
«Naturalmente - scrive Oriana - sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l'eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all'enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all'idea di Dio. Espediente mai capito e mai accettato».
Mentre la Fallaci scava nella propria storia, incontra ovviamente anche la Storia d'Italia, perché le vicende personali sono sempre intrecciate e condizionate dai grandi eventi, quelli che conducono all'Unità d'Italia.
È un percorso tribolato, da cui emerge una Fallaci patriota e risorgimentale, anarchica e socialista, illuminista e anti-clericale (ma non irreligiosa).
Dunque non sorprende che i primi eroi del romanzo siano la strana coppia composta da Carlo Fallaci e Caterina Zani, vissuti a cavallo fra il Sette e l'Ottocento. Lui, Carlo, molto credente dopo una gioventù da mangiapreti, è il primo della famiglia a essersi ribellato al giogo imposto dai nobili e dalla Chiesa. Grazie alla cultura: è il primo della famiglia, infatti, ad aver imparato a leggere e scrivere. Lei, Caterina, alter ego della scrittrice, è un personaggio straordinario: discendente di un'eretica sui generis mandata al rogo per aver cotto «un coscio d'agnello» in un giorno di quaresima; analfabeta decisa a imparare a leggere, scrivere e fare di conto; lavoratrice instancabile; esperta di erboristeria e medico autodidatta; atea che rimane incantata da una Madonna di Giotto; al centro della vita sociale perché capace di recitare a memoria brani dell'Inferno e dell'Orlando Furioso.
L'odioso "Nappa" Bonaparte
È lei il motore della famiglia, ed è in lei che con tutta evidenza la Fallaci si rispecchia. È Caterina ad aggredire Napoleone per le vie di Firenze nel 1796. La Fallaci descrive così gli onori coi quali venne accolto il finto liberatore: «Gli stessi onori che, come vedremo, la pronipote della nostra eroina (cioè la Fallaci stessa, ndr) avrebbe visto tributare a Mussolini e Hitler nel 1938». È Caterina a voler cacciare i soldati francesi, una tirannica forza di occupazione che agisce in contrasto col motto "Libertà, Fraternità, Uguaglianza".
La famiglia patriottica resiste all'invasore Napoleone, ed è chiaro il parallelismo con l'altra Resistenza, quella che la scrittrice vivrà in prima persona come staffetta partigiana. Caterina e Carlo parteciperanno all'assalto della gendarmeria di Panzano, presidio francese. Col forcone in mano e gridando «Viva Gesù» in faccia a quei senza dio di francesi che tutti chiamano «nuvoloni» per via delle prime due parole di ogni editto «Nous-voulons», noi vogliamo.
I narcisistidell'Unità
C'è poi, nella seconda parte, la sventurata sorte degli avi del ramo materno, in particolare di Francesco Launaro (1750-1816) e María Ignacia Josepha Montserrat (1770-1814). Francesco, nostromo di lungo corso, è figlio di uno schiavo prigioniero dei barbareschi e cerca vendetta.
Improvvisamente pacificato dopo aver sgozzato venti arabi, mette la testa a posto. Ma si trova costretto a fare un lavoro che detesta, sulle navi dei negrieri, per mantenere la splendida moglie, figlia (rinnegata) di un Grimaldi, nobile genovese e diplomatico alla corte di Spagna.
Nella terza e quarta parte, il Risorgimento è protagonista di moltissime pagine: gli antenati della scrittrice hanno combattuto per liberare la patria dallo straniero «per la giustizia e la libertà, sogni di cui i bugiardi di oggi si servono per dare la scalata al potere».
Sono soprattutto i Cantini, ramo della famiglia da cui discende il nonno materno Augusto, a trovarsi coinvolti nelle guerre napoleoniche, poi nella carboneria e infine nelle guerre d'Indipendenza. Giovanni Cantini segue la sorte di un'intera generazione di toscani e di italiani. Prima carne da macello per l'esercito di Napoleone, detto Nappa, in Spagna e in Germania. Quindi carbonaro (convinto dalle parole del nobile inglese a cui fa da segretario: Percy Bysshe Shelley) e patriota. Nei convulsi rivolgimenti politici, la Fallaci sembra rintracciare un filo comune, un filo forse mai reciso, che potrebbe condurre fino ai nostri giorni.
Il «problema grosso» infatti, a ogni giro della ruota, sono gli eterni voltagabbana italiani. Ecco dunque ex giacobini riciclarsi come restauratori dopo la cacciata dei francesi dalla Toscana. Ma non sono solo aristocratici e funzionari a cambiare casacca con velocità. «Quanto al popolo, guarda: nel voltagabbanismo batteva addirittura i signori», annota Oriana. Ed emergono anche altre caratteristiche della politica nazionale che non sembrano averci mai abbandonati. Ecco quindi Filippo Buonarroti allearsi con La Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Ed ecco le due primedonne accapigliarsi immediatamente. «Appena firmato il patto era esploso l'alterco ideologico sulla parola Uguaglianza. Anzi più che un alterco una rissa accompagnata da reciproci furti di adepti, reciproci insulti, reciproche calunnie ed accuse (...) Porca miseria, che razza di lotta era una lotta i cui capi si azzannavano come cani idrofobi? Che senso aveva sacrificarsi se dai loro sicuri rifugi all'estero quei vanesi seminavano zizzanie e alimentavano meschine rivalità?».
E ancora l'irresponsabilità dei capi: i primi a levare le tende quando le cose si mettono male, come a Livorno nel 1848, quando l'esercito austriaco provvede a ristabilire l'ordine. «Indovina chi fu il primo a svignarsela? (...) Quasi tutti i paladini della resistenza a oltranza. Gli intellettuali, i giornalisti. I discepoli di Mazzini e di Garibaldi e di Marx. Per imbarcarsi sulle navi che a prezzi scandalosi garantivan l'asilo e l'espatrio, da domenica 6 maggio s'erano procurati il passaporto». A difendere Livorno da 25 mila austriaci restarono in 600. Gli altri si erano dileguati.
Poi, nell'ultima parte del libro, incompiuta (alcune pagine sono rimaste manoscritte), c'è l'America, che per Oriana era un'altra patria. E c'è la avventurosa vita della valdese Anastasìa, la bisnonna di Oriana dalla parte del padre. Una vita avventurosa da emigrata prima a New York e quindi all'Ovest, partendo da Torino in cui vigeva la «tirannia della Chiesa sposata allo Stato». Una vita avventurosa come quella della nipote Oriana Fallaci. Anche se il racconto non arriva, come sembrava dovesse essere e come senz'altro era nel progetto iniziale, almeno alla Resistenza, dalle storie degli avi esce proprio Oriana: innamorata della libertà e dell'Italia e dell'America; atea ma attenta alla religione. Intollerante verso chi si riempie la bocca di nobili princìpi al fine di ottenere il potere.
Alessandro Gnocchi
(C) Libero
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