30 luglio 2008

Oriana Fallaci e la saga dei ribelli sconfitti

Il «cappello pieno di ciliege» è il copricapo civettuolo che Caterina, l'«arcavola» di Oriana che vive le sue peripezie nel Settecento toscano alla vigilia della Rivoluzione francese, indossa per farsi riconoscere dal Carlo suo prossimo coniuge. Quel cappello è l'emblema della sfida alle feroci leggi suntuarie dell'epoca, concepite e fabbricate per rafforzare «le barriere già insormontabili tra le classi sociali».

Caterina (nelle cui vene scorre il sangue eretico di un'Ildebranda a suo tempo martirizzata dagli scherani del Sant'Uffizio sol perché aveva cotto un coscio d'agnello durante la Quaresima) fa della guerra a quelle norme la bandiera della propria indipendenza. Possiede perciò «un mucchio di abiti illegali». Disobbedisce a chi senza misericordia proibisce alle donne di adornarsi con cappelli e abiti frivoli, nastri, fiocchi, monili anche non pregiati. Alla fiera di Rosìa, vicino a Siena, smercia spavaldamente «tubi di decenza» (insomma mutande da donna) «coi legacci di seta e i gambali ricamati in blu e la trina sull'orlo» sbraitando nella pubblica piazza: «Tubi di decenza copiati dai calenzò della regina di Francia! Comprate, signori, comprate, e la vostra mogliera vi vorrà bene». Ed è lei, Caterina-Oriana, che a Firenze grida in faccia a Napoleone l'oppressore: «Accident'a te e alla troia che t'ha partorito!».

L'incontenibile, gagliarda, vulcanica Caterina perderà la sua battaglia nella vita e in quella della Storia. Oriana Fallaci ne raccoglie le gesta attingendo alla cassapanca avìta che si è tramandata di generazione in generazione fino al disastro del bombardamento di Firenze del '44, in cui fu distrutta. Una cassapanca che custodiva i segreti della catena familiare destinata, assieme ai cromosomi, a trasmettere il senso di una continuità capace di plasmare il «passaggio nel Tempo» di ogni suo anello. E ogni tappa di questo viaggio periglioso è una parte di sé che la Fallaci racconta come se ciascuna figura ne fosse la provvisoria incarnazione. Ma senza un fine, uno scopo, un disegno preordinato, un'intenzione provvidenziale. La Fallaci, c'è scritto chiaramente nel suo prologo, non si consegna all'immagine autoconsolatoria di un Dio che modella la vita degli individui e la storia di tutti a suo piacimento (altro che conversione in articulo mortis). Tutto in questo vulnerabilissimo ordito è casuale e capriccioso, tranne il carattere che da arcavolo ad arcavolo si perpetua fino a lei. Il carattere forte e combattivo di una famiglia votata alla sconfitta, eppure alla sconfitta non sa rassegnarsi.

Il Napoleone dileggiato da Caterina-Oriana è il simbolo della Storia che vince, e che vincendo opprime. L'arcavola Caterina si ribella ad essa intrecciando cappellini leziosi e non accettando la morte della propria creatura. L'arcavolo Francesco Launaro si ribella sgozzando venti algerini per vendicare il padre schiavizzato e assassinato. Giovanni e Teresa si ribellano con una straziante notte d'amore clandestina. Giobatta si ribella con la smania di imparare a leggere e a scrivere, e attraverso il verbo rivoluzionario capace di sovvertire il mondo. Anastasìa si ribella con le avventure di una vita inconcepibile per una donna dell'Ottocento, con la violazione di ogni regola consacrata e la rovina che la inghiottirà. Nonno Antonio si ribella incantato dalla passione sulfurea di Abelardo ed Eloisa, per respirare libero dal giogo asfissiante del seminario. Ma i ribelli inesorabilmente perdono. Perdono tutti, annichiliti da naufragi e disillusioni, suicidi e rinunce. Vince la Storia dei farabutti e degli impostori. E tra le forze della Storia non se ne salva nessuna. Nessuna. Non Napoleone che predica libertà e porta devastazioni e tiranni. Non le forze organizzate della religione del comando, la Chiesa cattolica ma anche i calvinisti, i valdesi, persino i mormoni. Non i liberali del Risorgimento italiano, fatui, pavidi, trafficoni. Non i portabandiera delle ideologie, dapprima magniloquenti apostoli dello spirito insurrezionale e rivoluzionario, ma sempre con l'ansia di conquistare il potere per farne un uso criminale. Non il popolo degli opportunisti, dei voltagabbana, dei traditori che ne infesta il palcoscenico.

Ma il romanzo della Fallaci è diverso dalla «Storia» con cui Elsa Morante narrava l'inferno dei povericristi divorati dai potenti della Storia. Anzi, non solo è diverso: ne è l'opposto, l'antitesi. Lì la docile rassegnazione. Qui la saga, l'epopea dei vinti che combattono senza tregua. Sono i figli di un mondo che comincia appunto nel Settecento e si dipana fino ai nostri giorni. Quello in cui si forgia l'idea che gli uomini non siano più prigionieri di un destino che distribuisce le parti una volta per tutte, senza possibilità di sfuggirvi. Gli arcavoli della Fallaci distruggono con le loro vite la cornice della stabilità e dell'immobilismo, le catene di un universo in cui è obbligatorio subire in silenzio, immiserirsi e sfiorire in un ruolo sociale sempre identico nel tempo, accettare i verdetti imperscrutabili che altri hanno decretato per te, non concepire altra vita che non sia l'obbedienza alle ingiunzioni trascritte negli editti fissati per sempre da una tradizione immutabile. È commovente l'entusiasmo della Fallaci per il desiderio furioso degli analfabeti di impadronirsi della scrittura e della lettura come armi di riscatto e di rivincita morale. Per le invenzioni che scuotono il mondo: le navi a vapore che affrancano dalla schiavitù delle ciurme; le ferrovie che aprono un mondo dagli orizzonti sconosciuti; le lampade a gas e poi quelle elettriche che liberano dal terrore della notte e dal buio delle menti; persino la macchina da cucire che per le donne assomiglia a un regalo degli dèi, onde alleviare fatica e dolore. Si sente a ogni pagina quanto la Fallaci fosse erede della cultura del melodramma, in cui tutto è eccesso delle passioni, smodatezza delle circostanze.

Ma si sente anche l'assillo di una ricerca affannosa tra gli archivi che danno testimonianza di ogni «passaggio nel Tempo», di una mole di studi che fanno di questo romanzo postumo uno straordinario trattato di storia della moda, un'antologia dei sistemi di produzione che si avvicendano per oltre un secolo con il respiro dell'epica. E poi la precisione delle conoscenze di botanica, di scienza nautica, di architettura, di storia dell'arte, di ricette culinarie, di storia della medicina. Ma con la trama di una narrazione che fonde in una scrittura bellissima nozioni che altrimenti risulterebbero aride e inespressive. E se Caterina sudava sull'abbecedario indispensabile per imparare a scrivere, molti aspiranti scrittori dovrebbero cimentarsi con le 823 pagine di questo romanzo per imparare a scrivere bene (salvo poi decidere di rinunciare ad aspirazioni e velleità, per non uscire stritolati da una comparazione tanto schiacciante e impossibile da sostenere).

Pierluigi Battista
(C) Corriere della Sera