L’Ansa ha diffuso, il giorno 1 di agosto, il seguente comunicato della Rizzoli: «Un cappello pieno di ciliege», il romanzo postumo di Oriana Fallaci, è arrivato nelle librerie italiane il 30 di luglio e, dopo sole ventiquattr’ore per far fronte alle richieste dei librai, la Casa editrice Rizzoli ha deciso la ristampa di una seconda edizione di 50 mila copie. A tre giorni dall’uscita in libreria, le richieste hanno reso necessaria una terza edizione di 100 mila copie.
«La tiratura complessiva del volume arriva così a mezzo milione di copie e tre edizioni in tre giorni confermando il successo dell’opera e lo straordinario legame di Oriana Fallaci con i suoi lettori». La gente che fa la fila in libreria per acquistare un libro di Oriana Fallaci: già visto. Ma si trattava di pagine più gridate che scritte, di irrefrenabili emorragie d’odio autentico e spesso contagioso. Gli italiani, si sa, van sovente a caccia d’un capro espiatorio, quanto meno, d’un «bersaglio politico», d’una sorta di san Sebastiano con le sembianze del nemico. Nel caso di Oriana, il multitrafitto Sebastiano avrà le sembianze (posticce) d’un terrorista islamico, possibilmente sdendato, gli occhi colmi d’odio. E questo perché a partire da Insciallah sino alla Trilogia diremo dell’odio per l’islam non solo militante, Oriana ha genialmente sparigliato le carte accendendo innumerevoli piccoli fuochi tenaci, alimentati dal luogo comune, per altro utilizzato con tellurica possanza. Tutta la nostra Storia, quella di ieri, quella d’oggi, rivela una massima aspirazione: delegare. Se al tempo di Mani Pulite l’onorevole Di Pietro avesse avuto la possibilità di candidarsi alla presidenza della Repubblica sarebbe stato plebiscitato anche dalle monache di clausura. A molti di noi piace «delegare» poiché confina con «criticare»; è la filosofia di «ci pensa Papà», ma guai se Papà non fa quello che tu vorresti facesse: il 25 di luglio (o qualcosa del genere) è sempre in agguato. Nella remota mezza primavera del 1949 (?), giovanissimo cronista alle prime armi, inciampai in Edda Ciano Mussolini «momentaneamente isolata». (La spostavano in continuazione. Per la sua sicurezza, a scanso di guai). Non volle (non poteva) farsi intervistare ma acconsentì a rispondere a una mia domanda, una sola, che avrei tenuto per me. Parola. «Contessa, un giudizio sul Fascismo». Sbarrando gli occhi da airone: «Igor Man, scandì, ma quale fascismo, italianismo».
Questo per dire (sbrigativamente) come il clamoroso successo di vendita dei libri dedicati da Oriana con furore al pericolo islamico sia figlio, giustappunto, dell’«italianismo». Difficile (o addirittura impossibile?) da sradicare perché da sempre nel nostro Dna frutto di complicate alchimie culturali. Questo potrebbe tuttavia valere pei libri che Oriana ha dedicato al «pericolo islamico», alimentando con furia messianica il buco nero della ancestrale paura per il «diverso» (A tocchi / a tocchi / la campana sona / li turchi / so sbarcati / alla marina). Squassata da autentico furore e insieme preoccupata sinceramente che gli italiani non capissero, non si rendessero conto di andar per via con sulla testa la spada di Damocle, anzi la scimitarra del Damocle islamico, Oriana condusse sino allo sfinimento fisico una campagna allarmistica nutrita soprattutto di disprezzo. Persino il saggio discorso di quel soave realista che fu Tiziano Terzani si spuntò sulla blindata corazzata - Oriana. Ma tutto ciò, dico, potrebbe valere per gli scritti «contro». Non pel cestino colmo di ciliege, punto e spunto di partenza del suo libro-saga. Qui Oriana non semina odio bensì amore ed è difficile ci spiega, se non proprio impossibile, che lo schifo del mondo abbia ragione e l’amore rimanga sconfitto da quell’insieme di contraddizioni che chiamiamo vita.
Attenzione: Oriana Fallaci non è (con tutto il rispetto) Liala. E il suo poderoso libro (847 pagine) non è un elenco telefonico di buoni sentimenti, o di cattivi comportamenti. Quello di Oriana Fallaci, il Cappello pieno di ciliege, è un rapinoso romanzo all’antica. Un’opera di inedita poesia poiché a scandirne la poderosa metrica è la Storia: quella vissuta dai protagonisti della saga creata da Oriana miscelando fantasia e verità. C’è il Fatto, ci sono le storie dei personaggi e chi vuole può cavarne la morale dovuta. («I fatti rimangono, gli uomini passano»). E i fatti più che dalla ermetica cassapanca di famiglia (un mistero famigliare) escono dal cuore e dalla mente dei personaggi. Tanti ma non troppi, i personaggi, hanno una caratteristica comune che a me sembra felicemente nuova. Sono, i personaggi, protagonisti e insieme attori. Guardano gli altri e li descrivono fin dove è possibile raccontare e spiegare un fatto, i fatti, l’Altro da te. Quando il discorso si fa difficile, ad evitar crudeli anemie ai personaggi, essi stessi indossano panni e parole incarnandosi nel proprio Io: e il racconto passa in prima persona. Ma quando sarà necessario, per il piacere del lettore e la passione di Oriana, l’Io si spoglierà dei panni delle dramatis parsonae pel farsi coro a modo di tragedia grecoromana.
Chi mi avrà seguito sin qui avrà capito che questo di Oriana è un libro nuovo nella sua classicità. Dove l’Oriana spesso diventa figlia di se stessa e, come tale, bisognosa di fatti da vivere, nel nostro caso: da raccontare. Anche a beneficio delle commesse che sanno a memoria Via col vento.
Qualcuno si è chiesto come e perché mai Oriana abbia voluto scrivere una saga famigliare. Per una botta di megalomania? Può darsi, poiché il personaggio Fallaci chiaramente si apprezza. Però l’autostima, ancorché perenne, trova immancabilmente il contrappasso nell’ironia. Ma il meglio del volume è nella sua affascinante architettura, nella resa narrativa. Non solo: si lascia il libro, dopo averlo persino chiosato qua e là, col rammarico che la sua (fantomatica?) ultima parte non sia disponibile. Forse Oriana non fece in tempo a scriverla oppure decise di rinunciarci. Lasciando ai lettori la possibilità di provarci loro: scatenando la fantasia offerta da una specie di Manifesto femminista.
Chi scrive rifiutò, a suo tempo, di occuparsi di Inshallah. Ma Oriana non si adontò, lei così difficile perché convinta d’essere indispensabile. Non me ne volle, lei così innamorata di Oriana Fallaci, lei figlia di se stessa con tutto ciò che questa condizione comporta. Quando morì mio fratello Mirco (a New York: era il Decano dell’Ansa) mi telefonò alle 2 di notte: «Mirco, il nostro calmucchino era molto paziente, tenero persino con la povera Oriana. Gli ho voluto davvero bene. Prega per tuo fratello Mirco, fallo anche per me - se ne sei capace» (...).
«Inizio a lavorare al mattino, presto. Vado avanti sino alle 6 o 7 di sera senza interruzione, senza mangiare e senza riposare. Fumo più del solito, il che significa circa 50 sigarette al giorno. Dormo male la notte. Non vedo nessuno. Non rispondo al telefono. Non vado da nessuna parte. Ignoro le domeniche, le feste. Divento isterica e infelice e colpevole se non produco molto. Quando mi ammalo divento brutta, perdo peso e divento più rugosa».
Povera Oriana, lontana e sola, scrivemmo quand’ella svanì. Ma ora è diverso, ora c’è questo libro rapsodico, questa Storia fatta di interminabili storie. Di vita, di morte, di pianto ma (stavolta) anche di certezza. D’aver scovato l’Altro ch’è in te, finalmente partorendolo, come speravi. «Non c’è il Nulla. Zero non esiste. Ogni cosa è qualche cosa. Niente non è niente». Lo ha scritto Victor Hugo che ti affascinava. Che la terra ti sia leggera, Oriana.
«La tiratura complessiva del volume arriva così a mezzo milione di copie e tre edizioni in tre giorni confermando il successo dell’opera e lo straordinario legame di Oriana Fallaci con i suoi lettori». La gente che fa la fila in libreria per acquistare un libro di Oriana Fallaci: già visto. Ma si trattava di pagine più gridate che scritte, di irrefrenabili emorragie d’odio autentico e spesso contagioso. Gli italiani, si sa, van sovente a caccia d’un capro espiatorio, quanto meno, d’un «bersaglio politico», d’una sorta di san Sebastiano con le sembianze del nemico. Nel caso di Oriana, il multitrafitto Sebastiano avrà le sembianze (posticce) d’un terrorista islamico, possibilmente sdendato, gli occhi colmi d’odio. E questo perché a partire da Insciallah sino alla Trilogia diremo dell’odio per l’islam non solo militante, Oriana ha genialmente sparigliato le carte accendendo innumerevoli piccoli fuochi tenaci, alimentati dal luogo comune, per altro utilizzato con tellurica possanza. Tutta la nostra Storia, quella di ieri, quella d’oggi, rivela una massima aspirazione: delegare. Se al tempo di Mani Pulite l’onorevole Di Pietro avesse avuto la possibilità di candidarsi alla presidenza della Repubblica sarebbe stato plebiscitato anche dalle monache di clausura. A molti di noi piace «delegare» poiché confina con «criticare»; è la filosofia di «ci pensa Papà», ma guai se Papà non fa quello che tu vorresti facesse: il 25 di luglio (o qualcosa del genere) è sempre in agguato. Nella remota mezza primavera del 1949 (?), giovanissimo cronista alle prime armi, inciampai in Edda Ciano Mussolini «momentaneamente isolata». (La spostavano in continuazione. Per la sua sicurezza, a scanso di guai). Non volle (non poteva) farsi intervistare ma acconsentì a rispondere a una mia domanda, una sola, che avrei tenuto per me. Parola. «Contessa, un giudizio sul Fascismo». Sbarrando gli occhi da airone: «Igor Man, scandì, ma quale fascismo, italianismo».
Questo per dire (sbrigativamente) come il clamoroso successo di vendita dei libri dedicati da Oriana con furore al pericolo islamico sia figlio, giustappunto, dell’«italianismo». Difficile (o addirittura impossibile?) da sradicare perché da sempre nel nostro Dna frutto di complicate alchimie culturali. Questo potrebbe tuttavia valere pei libri che Oriana ha dedicato al «pericolo islamico», alimentando con furia messianica il buco nero della ancestrale paura per il «diverso» (A tocchi / a tocchi / la campana sona / li turchi / so sbarcati / alla marina). Squassata da autentico furore e insieme preoccupata sinceramente che gli italiani non capissero, non si rendessero conto di andar per via con sulla testa la spada di Damocle, anzi la scimitarra del Damocle islamico, Oriana condusse sino allo sfinimento fisico una campagna allarmistica nutrita soprattutto di disprezzo. Persino il saggio discorso di quel soave realista che fu Tiziano Terzani si spuntò sulla blindata corazzata - Oriana. Ma tutto ciò, dico, potrebbe valere per gli scritti «contro». Non pel cestino colmo di ciliege, punto e spunto di partenza del suo libro-saga. Qui Oriana non semina odio bensì amore ed è difficile ci spiega, se non proprio impossibile, che lo schifo del mondo abbia ragione e l’amore rimanga sconfitto da quell’insieme di contraddizioni che chiamiamo vita.
Attenzione: Oriana Fallaci non è (con tutto il rispetto) Liala. E il suo poderoso libro (847 pagine) non è un elenco telefonico di buoni sentimenti, o di cattivi comportamenti. Quello di Oriana Fallaci, il Cappello pieno di ciliege, è un rapinoso romanzo all’antica. Un’opera di inedita poesia poiché a scandirne la poderosa metrica è la Storia: quella vissuta dai protagonisti della saga creata da Oriana miscelando fantasia e verità. C’è il Fatto, ci sono le storie dei personaggi e chi vuole può cavarne la morale dovuta. («I fatti rimangono, gli uomini passano»). E i fatti più che dalla ermetica cassapanca di famiglia (un mistero famigliare) escono dal cuore e dalla mente dei personaggi. Tanti ma non troppi, i personaggi, hanno una caratteristica comune che a me sembra felicemente nuova. Sono, i personaggi, protagonisti e insieme attori. Guardano gli altri e li descrivono fin dove è possibile raccontare e spiegare un fatto, i fatti, l’Altro da te. Quando il discorso si fa difficile, ad evitar crudeli anemie ai personaggi, essi stessi indossano panni e parole incarnandosi nel proprio Io: e il racconto passa in prima persona. Ma quando sarà necessario, per il piacere del lettore e la passione di Oriana, l’Io si spoglierà dei panni delle dramatis parsonae pel farsi coro a modo di tragedia grecoromana.
Chi mi avrà seguito sin qui avrà capito che questo di Oriana è un libro nuovo nella sua classicità. Dove l’Oriana spesso diventa figlia di se stessa e, come tale, bisognosa di fatti da vivere, nel nostro caso: da raccontare. Anche a beneficio delle commesse che sanno a memoria Via col vento.
Qualcuno si è chiesto come e perché mai Oriana abbia voluto scrivere una saga famigliare. Per una botta di megalomania? Può darsi, poiché il personaggio Fallaci chiaramente si apprezza. Però l’autostima, ancorché perenne, trova immancabilmente il contrappasso nell’ironia. Ma il meglio del volume è nella sua affascinante architettura, nella resa narrativa. Non solo: si lascia il libro, dopo averlo persino chiosato qua e là, col rammarico che la sua (fantomatica?) ultima parte non sia disponibile. Forse Oriana non fece in tempo a scriverla oppure decise di rinunciarci. Lasciando ai lettori la possibilità di provarci loro: scatenando la fantasia offerta da una specie di Manifesto femminista.
Chi scrive rifiutò, a suo tempo, di occuparsi di Inshallah. Ma Oriana non si adontò, lei così difficile perché convinta d’essere indispensabile. Non me ne volle, lei così innamorata di Oriana Fallaci, lei figlia di se stessa con tutto ciò che questa condizione comporta. Quando morì mio fratello Mirco (a New York: era il Decano dell’Ansa) mi telefonò alle 2 di notte: «Mirco, il nostro calmucchino era molto paziente, tenero persino con la povera Oriana. Gli ho voluto davvero bene. Prega per tuo fratello Mirco, fallo anche per me - se ne sei capace» (...).
«Inizio a lavorare al mattino, presto. Vado avanti sino alle 6 o 7 di sera senza interruzione, senza mangiare e senza riposare. Fumo più del solito, il che significa circa 50 sigarette al giorno. Dormo male la notte. Non vedo nessuno. Non rispondo al telefono. Non vado da nessuna parte. Ignoro le domeniche, le feste. Divento isterica e infelice e colpevole se non produco molto. Quando mi ammalo divento brutta, perdo peso e divento più rugosa».
Povera Oriana, lontana e sola, scrivemmo quand’ella svanì. Ma ora è diverso, ora c’è questo libro rapsodico, questa Storia fatta di interminabili storie. Di vita, di morte, di pianto ma (stavolta) anche di certezza. D’aver scovato l’Altro ch’è in te, finalmente partorendolo, come speravi. «Non c’è il Nulla. Zero non esiste. Ogni cosa è qualche cosa. Niente non è niente». Lo ha scritto Victor Hugo che ti affascinava. Che la terra ti sia leggera, Oriana.
Igor Man
(C) La Stampa
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