14 gennaio 2009

Leggere Grossman per capire Israele

Caro direttore,
su Israele e le guerre che l’hanno visto protagonista sono stati versati fiumi d’inchiostro. Mentre assistiamo all’ennesima tappa di un conflitto decennale, però, l’immagine prevalente dello Stato ebraico resta quella di una potenza dedita solo alla guerra, una sorta di monolite pronto a scontrarsi con i suoi vicini e a sottomettere i palestinesi e la loro (giusta) aspirazione ad uno Stato. È chiaro che le cose non stanno così: quella israeliana è una società democratica complessa, dalle mille sfaccettature. Dietro alla potenza di fuoco dell’esercito ci stanno ragazzi poco più che ventenni, strappati allo studio e al lavoro per difendere uno Stato sotto minaccia costante; dietro questi ragazzi, ci stanno madri che vivono nell’incubo di non vederli più tornare. E se nei dintorni di Tel Aviv la vita scorre tranquilla, nel Sud del Paese – l’abbiamo imparato in questi giorni – le giornate sono scandite dalle sirene e dai quei maledetti quindici secondi per raggiungere il rifugio più vicino: poi, il razzo cade.

Per capire questa realtà, l’ultimo romanzo di David Grossman – “A un cerbiatto somiglia il mio amore” (Mondadori, 2008) – può essere di grande aiuto. E non tanto perché Grossman – fiero sostenitore della pace, come dimostra la raccolta di saggi “Con gli occhi del nemico” – ha perso un figlio nell’ultima guerra tra Israele ed Hezbollah. Ma piuttosto perché l’autore, in quasi 800 pagine, riesce ad abbracciare tutto il suo Paese: dalla guerra dei sei giorni (1967) alle battaglie contemporanee, dai rapporti tra arabi e israeliani al dolore della vita quotidiana, dalle preoccupazioni delle madri israeliane alle ragioni dell’altra parte. Nel lungo viaggio di Orah e Avram attraverso la Galilea emerge una realtà ricca e sfaccettata: ci sono padri che studiano percorsi alternativi per portare i figli a scuola, perché un kamikaze potrebbe nascondersi ovunque; ci sono ragazzi che vengono improvvisamente reclutati da Tsahal, mettendo in discussione le sorti della propria esistenza; ci sono valli fiorite che si alternano al ricordo del sangue sul campo di battaglia.

Stiamo parlando di un libro impegnativo, ma certamente illuminante. Scopriremo, ad esempio, che le decisioni di un governo non rappresentano il sentire di un popolo intero: ci sono personaggi che si interrogano sulla reale utilità (e moralità) della guerra. Scopriremo che anche molti israeliani riconoscono – e provano dolore – per le sofferenze dei palestinesi. E ci renderemo finalmente conto, forse, che bruciare bandiere e boicottare non porta da nessuna parte: perché dietro quelle bandiere ci sta un popolo che soffre e si interroga come noi, più di noi. E certo non si diverte a fare la guerra, anche se talvolta si sente costretto.

Il Riformista