“Ogni notte arrivano dei soldati ubriachi e ci picchiano con dei bastoni di legno. Il mio corpo è nero per le macchie di sangue rappreso, come un pezzo di legno affumicato. […] L’altro ieri sono evasi due ragazzini, allora ci hanno messi in fila e ogni quinto della fila veniva fucilato. Non ero il quinto, ma so che non esco vivo da qui. Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, cari fratelli e piango…”. L’autore di questa lettera è un ragazzo di nome Chaim, figlio di contadini Galiziani: internato dai nazisti nel lager di Pustków, ha affidato alla carta le sue ultime parole. La lettera, conficcata nel filo spinato che circondava il campo, è stata ritrovata da un contadino della zona e recapitata ai genitori. Chaim era già morto.
Dell’Olocausto sappiamo moltissimo. Conosciamo le strategie dei nazisti, i piani dettagliati per lo sterminio degli ebrei, la sofferenza patita da milioni di europei nella prima metà del Novecento. La testimonianza di Chaim, però, va oltre i saggi storici e le testimonianze rese a posteriori dai sopravvissuti: le sue sono le ultime parole di un uomo condannato a morte, per il semplice fatto di essere ebreo. L’urlo disperato di Chaim, insieme a moltissimi altri, va a comporre quel mosaico straziante intitolato “Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah”, fresco di stampa a cura del professor Zwi Bacharach. Pubblicato originariamente nel 2002 dallo Yad Vashem (il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme), due anni dopo viene tradotto in inglese e diffuso nei paesi anglosassoni. Oggi, in concomitanza con la Giornata della Memoria appena trascorsa, vede finalmente la luce anche in Italia per i tipi di Laterza.
Nella sua lunga introduzione, Bacharach – sopravvissuto all’Olocausto, professore emerito e ricercatore per lo Yad Vashem – descrive le oltre cento lettere che compongono la raccolta come“la testimonianza soggettiva delle vittime sulle situazioni che gli scriventi dovettero patire, così come loro stesse le percepivano e non come erano dipinte dal nemico”. Nessuna ricostruzione, nessuna analisi: a parlare sono uomini che stanno andando incontro alla morte nell’inferno nazista degli anni Trenta e Quaranta. A parlare sono giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri, contadini e professionisti, rassegnati e resistenti. Ad accomunarli, il fatto di essere ebrei.
Certo, non saranno delle lettere a farci comprendere l’essenza della Shoah. Ha ragione Faige Krauss, quando dal ghetto di Sambor (è il 24 maggio 1943) scrive: “La gente non è in grado di capirci in quanto non ha la capacità di immaginare persone che non sono altro che cadaveri viventi”. E non saranno le ultime parole di queste creature ad aprire uno squarcio sul male: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo” rifletteva Primo Levi nella sua opera più celebre. Eppure queste parole dovrebbero ascoltarle tutti: di rado, infatti, le vittime della Shoah sono apparse così vicine a noi. Uomini come tanti, condannati all’annientamento.
Delle lettere qui raccolte, a colpire più di tutto è l’umanità che accompagna il senso di tragedia incombente. E le reazioni dei condannati, varie come varia è l’umanità. In molti prevale la disperazione (“Vivete felici e non dimenticate colei che muore a 19 anni” scrive Devorah Dohl dal campo di Muchawka), in altri la speranza: “E con l’aiuto del Signore anche noi potremo trasferirci in Israele e tutta la famiglia sarà nuovamente riunita” scrive una famiglia di Gorlice al figlio, prima di essere inevitabilmente sterminata. Fortissima, poi, è la preoccupazione per il futuro della prole: molti ebrei stilano veri e propri testamenti, materiali e spirituali, rivolti ai propri cari che sono riusciti a mettersi in salvo.
L’assurdità dello sterminio mette gli ebrei a fronte di grandi dilemmi etici. Pensare alla propria salvezza o seguire i familiari verso la morte? La maggior parte degli autori sceglie la seconda strada. A fronte di coloro che accettano il proprio destino, poi, si pone la frangia (quantitativamente minoritaria) di coloro che perdono la fede in Dio e pensano al suicidio: “Sembra che il fenomeno del suicidio possa essere visto come una forma di resistenza” commenta Zwi Bacharach, secondo il quale “procurarsi volontariamente a morte è il frutto di una chiara consapevolezza”. Un discorso a sé merita infine il rapporto delle vittime con i carnefici: un tema cruciale, spesso in ombra nella storiografia sulla Shoah.
Cosa provano gli ebrei degli anni Trenta e Quaranta a fronte del Terzo Reich? La sete di vendetta – umanamente più che comprensibile – è un sentimento diffuso. Scrive Melech Goldenberg, da Brody (siamo nel 1942): “Oh, volevo così tanto restare in vita fino a dopo la guerra, e vendicarmi. Immergermi nel loro sangue come hanno fatto loro nel nostro. […] Solo vendicarmi – questo è il mio unico desiderio. Sono veramente preoccupato, che il cattivo intento dell’assassino avrà successo e non rimarrà nessuno per fargli pagare le sue colpe”. Ma anche in questo frangente, le reazioni sono delle più varie. Julius Joseph, in una lettera ai figli redatta a Magdeburgo (sempre nel 1942), vede un mondo “attraversato da un’ondata di odio verso i tedeschi” e scrive: “Non ti far trascinare via da questa onda d’odio. Noi non siamo gli unici a dover patire. Milioni di bravi tedeschi non hanno proprio niente da ridere”. Se il fine dell’Olocausto era quello di sopprimere la ragione umana, allora Hitler ha miseramente fallito.
"Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah", a cura di Zwi Bacharach, Laterza 2009
pp. 313, € 16.00
Dell’Olocausto sappiamo moltissimo. Conosciamo le strategie dei nazisti, i piani dettagliati per lo sterminio degli ebrei, la sofferenza patita da milioni di europei nella prima metà del Novecento. La testimonianza di Chaim, però, va oltre i saggi storici e le testimonianze rese a posteriori dai sopravvissuti: le sue sono le ultime parole di un uomo condannato a morte, per il semplice fatto di essere ebreo. L’urlo disperato di Chaim, insieme a moltissimi altri, va a comporre quel mosaico straziante intitolato “Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah”, fresco di stampa a cura del professor Zwi Bacharach. Pubblicato originariamente nel 2002 dallo Yad Vashem (il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme), due anni dopo viene tradotto in inglese e diffuso nei paesi anglosassoni. Oggi, in concomitanza con la Giornata della Memoria appena trascorsa, vede finalmente la luce anche in Italia per i tipi di Laterza.
Nella sua lunga introduzione, Bacharach – sopravvissuto all’Olocausto, professore emerito e ricercatore per lo Yad Vashem – descrive le oltre cento lettere che compongono la raccolta come“la testimonianza soggettiva delle vittime sulle situazioni che gli scriventi dovettero patire, così come loro stesse le percepivano e non come erano dipinte dal nemico”. Nessuna ricostruzione, nessuna analisi: a parlare sono uomini che stanno andando incontro alla morte nell’inferno nazista degli anni Trenta e Quaranta. A parlare sono giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri, contadini e professionisti, rassegnati e resistenti. Ad accomunarli, il fatto di essere ebrei.
Certo, non saranno delle lettere a farci comprendere l’essenza della Shoah. Ha ragione Faige Krauss, quando dal ghetto di Sambor (è il 24 maggio 1943) scrive: “La gente non è in grado di capirci in quanto non ha la capacità di immaginare persone che non sono altro che cadaveri viventi”. E non saranno le ultime parole di queste creature ad aprire uno squarcio sul male: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo” rifletteva Primo Levi nella sua opera più celebre. Eppure queste parole dovrebbero ascoltarle tutti: di rado, infatti, le vittime della Shoah sono apparse così vicine a noi. Uomini come tanti, condannati all’annientamento.
Delle lettere qui raccolte, a colpire più di tutto è l’umanità che accompagna il senso di tragedia incombente. E le reazioni dei condannati, varie come varia è l’umanità. In molti prevale la disperazione (“Vivete felici e non dimenticate colei che muore a 19 anni” scrive Devorah Dohl dal campo di Muchawka), in altri la speranza: “E con l’aiuto del Signore anche noi potremo trasferirci in Israele e tutta la famiglia sarà nuovamente riunita” scrive una famiglia di Gorlice al figlio, prima di essere inevitabilmente sterminata. Fortissima, poi, è la preoccupazione per il futuro della prole: molti ebrei stilano veri e propri testamenti, materiali e spirituali, rivolti ai propri cari che sono riusciti a mettersi in salvo.
L’assurdità dello sterminio mette gli ebrei a fronte di grandi dilemmi etici. Pensare alla propria salvezza o seguire i familiari verso la morte? La maggior parte degli autori sceglie la seconda strada. A fronte di coloro che accettano il proprio destino, poi, si pone la frangia (quantitativamente minoritaria) di coloro che perdono la fede in Dio e pensano al suicidio: “Sembra che il fenomeno del suicidio possa essere visto come una forma di resistenza” commenta Zwi Bacharach, secondo il quale “procurarsi volontariamente a morte è il frutto di una chiara consapevolezza”. Un discorso a sé merita infine il rapporto delle vittime con i carnefici: un tema cruciale, spesso in ombra nella storiografia sulla Shoah.
Cosa provano gli ebrei degli anni Trenta e Quaranta a fronte del Terzo Reich? La sete di vendetta – umanamente più che comprensibile – è un sentimento diffuso. Scrive Melech Goldenberg, da Brody (siamo nel 1942): “Oh, volevo così tanto restare in vita fino a dopo la guerra, e vendicarmi. Immergermi nel loro sangue come hanno fatto loro nel nostro. […] Solo vendicarmi – questo è il mio unico desiderio. Sono veramente preoccupato, che il cattivo intento dell’assassino avrà successo e non rimarrà nessuno per fargli pagare le sue colpe”. Ma anche in questo frangente, le reazioni sono delle più varie. Julius Joseph, in una lettera ai figli redatta a Magdeburgo (sempre nel 1942), vede un mondo “attraversato da un’ondata di odio verso i tedeschi” e scrive: “Non ti far trascinare via da questa onda d’odio. Noi non siamo gli unici a dover patire. Milioni di bravi tedeschi non hanno proprio niente da ridere”. Se il fine dell’Olocausto era quello di sopprimere la ragione umana, allora Hitler ha miseramente fallito.
"Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah", a cura di Zwi Bacharach, Laterza 2009
pp. 313, € 16.00