15 aprile 2009

Obama e la mano troppo tesa

A dialogare, più o meno apertamente, ci provano tutti. Ci hanno sempre provato e, più o meno apertamente, ci proveranno sempre. Sono però d'accordo con Venturini quando lascia intendere che Obama si sta spingendo troppo in là...

Barack Obama l’ave­va detto: la mia sarà la politica della ma­no tesa. Bene, per­ché l’approccio ideologico e non dialogante di George Bu­sh aveva creato più problemi di quanti ne avesse risolti. Ma anche la politica della ma­no tesa ha un punto debole: occorre che la controparte l’accetti davvero, che esista­no tra i contraenti traguardi condivisi e flessibilità sul mo­do di raggiungerli. Altrimen­ti, la mano tesa può diventa­re sinonimo di debolezza. Può lasciare spazio a sapienti finzioni e a trappole micidia­li. Obama corre questo tipo di rischi? La risposta è sì, an­che se occorre sperare che si tratti di rischi calcolati.

Cominciamo dall’eccezio­ne che conferma la regola. Obama non aveva teso la ma­no alla Corea del Nord. La cu­pa dittatura di Pyongyang ha allora bussato alla porta del­la Casa Bianca con il lancio di un nuovo missile, e, visto il modesto esito dell’impresa, ieri ha sollecitato l’attenzio­ne del Presidente Usa ria­prendo il contenzioso nuclea­re e dando un calcio al tavolo dei negoziati. Domanda: si sa­rebbero comportati allo stes­so modo, i nordcoreani, se non avessero calcolato che Obama deve difendere la coe­renza della sua politica del sorriso?

L’America di Obama ha fat­to del conflitto afghano la sua priorità. Entro pochi me­si arriveranno sul terreno 21 mila nuovi soldati Usa. Il raf­forzamento dello strumento militare, nella strategia di Obama, è funzionale alla di­struzione di Al Qaeda e in contemporanea alla indivi­duazione di una pragmatica exit strategy. Per facilitare le cose si è pensato di tendere la mano ai talebani «modera­ti » cercando di dividerli da quelli più intransigenti. L’idea non è inedita, il gene­rale Petraeus l’ha collaudata in Iraq con i sunniti, e in Af­ghanistan come altrove è giu­sto parlare con tutti a comin­ciare dai nemici (in modo di­retto o indiretto lo fanno, ap­punto, tutti). Peccato che l’Af­ghanistan non sia l’Iraq, e che i talebani non siano le ve­nali bande sunnite della pro­vincia di Anbar. Peccato che per le forze occidentali la guerra butti male. Peccato che i talebani non abbiano in­centivi al dialogo (semmai l’incentivo sta dalla parte del traffico di oppio). Il piano del bastone e della carota, in­somma, rischia di cadere nel vuoto. E nel frattempo il Paki­stan potrebbe andare in pez­zi.

Obama ha teso la mano, soprattutto, all’Iran. Accenti di disponibilità, coinvolgi­menti diplomatici, segnali non troppo invadenti in vista delle elezioni di giugno (con la speranza non dichiarata che Ahmadinejad le perda), e infine una proposta nego­ziale in bella forma. Teheran ha accettato. Ma nel contem­po ha precisato che i pro­grammi nucleari prosegui­ranno, al pari di quelli balisti­ci. E nulla ha detto delle sue influenze armate in Medio Oriente. Il rischio è ovvio: che l’Iran incassi le conces­sioni promesse ma non dia nulla in cambio. Secondo il New York Times gli Usa e l’Europa potrebbero trattare con Teheran senza più esige­re la preventiva sospensione dell’arricchimento dell’ura­nio. Sarebbe una scommessa ulteriore. Forse capace di mandare in archivio l’opzio­ne militare, forse vincente malgrado gli scontati e fon­dati timori di Israele, forse in grado di orientare favorevol­mente l’esito elettorale. For­se. Ma se la scommessa inve­ce non funzionasse? Obama rischia di trovarsi alla fine senza più opzioni salvo quel­la militare che voleva seppel­lire.

Ne dobbiamo concludere che Obama sbaglia, quando tende la mano? No di certo. Ma dobbiamo, questo sì, au­gurargli moltissima fortuna, perché ne avrà e ne avremo bisogno.

Franco Venturini
(C) Corriere della Sera