09 maggio 2009

La politica delle "mani tese" rappresenta una minaccia per Israele?

L’amministrazione Obama rappresenta una minaccia per la sicurezza di Israele? In occasione delle recenti elezioni presidenziali, sono molti gli analisti che hanno dibattuto intorno a questo tema. A riprenderlo sull’ultimo numero di "Commentary Magazine" – in concomitanza con la scadenza dei primi 100 giorni di Obama alla Casa Bianca – è ora Norman B. Podhoretz, tra i massimi esponenti del pensiero neoconservatore.

Podhoretz ricorda innanzitutto due passate frequentazioni del presidente, origine delle prime apprensioni da parte degli ebrei: Jeremiah Wright e Rashid Khalidi. Reverendo il primo e professore della Columbia il secondo, i due sono accomunati da una buona dose di odio anti-israeliano e da una grande vicinanza con Barack Obama: Wright ha sposato il neopresidente, mentre Khalidi lo avrebbe influenzato sul piano politico e intellettuale. Col passare dei mesi però, ricorda Podhoretz, “Obama si è distaccato da entrambi e ha ripudiato le loro idee”. E l’operazione è perfettamente riuscita: il 78% degli ebrei americani ha votato per il candidato democratico, anche grazie al supporto di intellettuali liberal vicini ad Israele come il celebre giurista di Harvard Alan Dershowitz.

Conquistata la fiducia degli ebrei votanti, resta ora aperta la questione israeliana: e sarà proprio sul fronte dei rapporti con Gerusalemme, assicura Podhoretz, che emergeranno le maggiori distanze tra Obama e l’ex presidente George W. Bush. Nel corso del suo primo mandato, Bush è stato il più grande alleato di Israele: a costo di mettersi contro le Nazioni Unite, negli ultimi anni Washington ha difeso lo Stato ebraico anche nelle sue scelte più contestate (tra cui la costruzione del muro e di check point contro il terrorismo). E questo sostegno è presto spiegato: secondo Bush, infatti, “gli israeliani combattono contro lo stesso nemico che ha dichiarato guerra agli Stati Uniti l’11 settembre 2001”.

Con Obama – che da presidente eletto, in merito all’operazione Piombo Fuso a Gaza, ha comunque sostenuto il diritto all’autodifesa di Israele – questo atteggiamento potrebbe cambiare. A distinguere il vecchio dal nuovo presidente, sul fronte israelo-palestinese, è un’idea di fondo: secondo Bush, l’origine di tutti i mali sta in una leadership palestinese collusa col terrorismo (ai tempi di Arafat) e successivamente alla deriva (in seguito alla presa della Striscia di Gaza da parte dei militanti di Hamas); l’approccio di Obama, invece, sarebbe più simile a quello europeo: il problema originario non riguarderebbe infatti i palestinesi, quanto piuttosto gli insediamenti israeliani nel West Bank, vero ostacolo ad ogni trattativa.

Ma la presunta “minaccia Obama” per Israele non riguarda i suoi rapporti con i palestinesi: secondo Podhoretz – che non dimentica tutte le occasioni sprecate dai palestinesi, dalla risoluzione dell’Onu del 1947 al ritiro israeliano da Gaza nel 2005 – Israele, imparata la lezione di Gaza, non ritirerà mai 20.000 coloni dal West Bank, così come la leadership palestinese non giungerà mai ad un accordo tra Fatah ed Hamas per negoziare la pace con lo Stato ebraico. In che modo, allora, il neopresidente potrebbe minacciare la sicurezza di Israele? In merito, l’intellettuale neoconservatore non ha dubbi: optando per una linea morbida nei confronti dell’Iran.

A dispetto delle previsioni della Cia, infatti, “un numero di esperti sempre maggiore si dice d’accordo con i capi dell’intelligence militare israeliana, secondo cui gli iraniani avrebbero già varcato la soglia del nucleare”. Ma a fronte di una situazione tanto esplosiva, l’amministrazione Obama ha scelto la via della diplomazia – prima attraverso l’apertura di un dialogo con la leadership iraniana, risoltosi con una pubblica umiliazione, poi attraverso la mediazione siriana. Un dialogo che Podhoretz reputa del tutto fallimentare: “Presto o tardi, l’Iran otterrà la bomba”, scrive, ed escludendo la possibilità di un’azione militare l’amministrazione americana si starebbe preparando all’ipotesi “di convivere con un Iran nucleare”. A garanzia della stabilità interverrebbe la logica della deterrenza, già sperimentata con successo nel corso della guerra fredda: peccato però che questa logica sia ben lontana dalla follia che governa il regime teocratico degli ayatollah.

Un Iran dotato di bomba atomica – come proclama da tempo il premier israeliano Netanyahu – rappresenta oggi la più seria minaccia alla sopravvivenza di Israele: e posto che gli Stati Uniti non bombarderanno Teheran, il “lavoro sporco” ricadrebbe necessariamente sull’aviazione israeliana. E si situa qui, secondo Podhoretz, la più grande minaccia per Israele: l’amministrazione Obama sembra infatti orientata “a impedire che gli israeliani agiscano per conto loro”, condannandoli a convivere con un Iran atomico. Il 18 maggio, quando Netanyahu incontrerà Obama alla Casa Bianca, i temi sul tavolo saranno molti; ma a dispetto dei palestinesi, il primo punto all’ordine del giorno sarà la corsa di Teheran verso la bomba.

L'Occidentale