Un conto sono i capi, Barack Obama e Benjamin Netanyahu, un altro sono i ministri degli Esteri, Hillary Clinton e Avigdor Liberman. Si potrebbe spiegare così lo stato attuale dei rapporti tra Stati Uniti ed Israele. Da una parte i discorsi “alti” del presidente americano e del primo ministro israeliano (rispettivamente all’Università del Cairo e di Bar-Ilan), dall'altra il più concreto faccia a faccia tra i due responsabili della politica estera.
Se Obama e Netanyahu, dopo la freddezza del primo incontro alla Casa Bianca, sembrano in fase di riavvicinamento, le posizioni della Clinton e di Liberman non potrebbero essere più distanti: un dissidio incentrato sulla questione degli avamposti israeliani in Cisgiordania, emerso chiaramente nel corso della conferenza stampa congiunta seguita all’incontro fra i due.
Il dissenso tra Lieberman e la Clinton non rappresenta certo una novità. Le settimane precedenti all’incontro tra i due ministri degli Esteri sono state segnate da un’intensa attività diplomatica: George Mitchell, l'inviato di Obama in Medio Oriente, ha premuto per il congelamento degli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est, rivolgendosi direttamente al premier Netanyahu. La posizione americana è chiara: con i palestinesi non sarà possibile alcuna pace finché Israele non bloccherà l’espansione delle colonie. La pensano diversamente Netanyahu e il (meno diplomatico) Lieberman: aperti alle trattative sul blocco di nuovi insediamenti, entrambi considerano impossibile frenare quella che chiamano la “naturale crescita” degli insediamenti esistenti.
Nelle dichiarazioni rese ieri ai giornalisti dalla Clinton e da Liberman, queste frizioni sono uscite allo scoperto. “Vogliamo vedere uno stop agli insediamenti” ha dichiarato il segretario di stato americano: “Pensiamo sia una parte importante ed essenziale dello sforzo per giungere ad una pace globale e alla creazione di uno Stato palestinese”. La risposta di Liberman, che vive in una colonia, è stata altrettanto chiara: “In ogni posto del mondo nascono bambini, la gente si sposa e qualcuno muore: quindi non possiamo accettare di congelare completamente gli insediamenti”. In altri termini, Israele non ha alcuna intenzione di frenare l’espansione naturale delle colonie in Cisgiordania, terra definita significativamente da Lieberman – a nome della destra israeliana – “Giudeo-Samaria”.
C’è qualche possibilità che Stati Uniti ed Israele giungano ad un compromesso? La Clinton non chiude tutte le porte: “Crediamo che questo processo, gestito dal senatore Mitchell, sia appena iniziato. Ci sono molti punti critici, molti dei quali verranno trattati nelle prossime settimane”. Ad attirare l’attenzione dei giornalisti, però, è stato soprattutto un riferimento a presunti accordi con la passata amministrazione Bush: secondo Lieberman, infatti, sugli insediamenti “c’è stata un’intesa con la passata amministrazione, e noi stiamo cercando di mantenere quella strada”. Intesa che però non risulta alla Clinton: “Guardando alla storia dell’amministrazione Bush non c’è stato alcun accordo orale o informale sulla questione”.
La questione non è di poco conto. Hillary Clinton parla di accordi inesistenti sulla base di “verifiche” presso la passata amministrazione: la fonte sarebbe Daniel Kurtzer, ambasciatore di George W. Bush in Israele ed in seguito sostenitore di Barack Obama. In questa direzione, poi, vanno anche svariate dichiarazioni dell’ex sottosegretario Condoleezza Rice: in occasione delle frequenti visite in Medio Oriente nella fase preparatoria della conferenza di Annapolis, la Rice ha sempre sostenuto la necessità del blocco degli insediamenti. Le fonti di Liberman, secondo quanto riportato dal “Jerusalem Post”, sarebbero invece alti funzionari israeliani come l’ex consulente per la sicurezza nazionale Elliott Abrams e l’ex capo dello staff di Ariel Sharon Dov Weisglass: entrambi avrebbero fatto riferimento a “taciti accordi” sugli insediamenti tra il governo Olmert e l’amministrazione Bush.
L’incontro-scontro tra Lieberman e la Clinton si colloca nel difficile contesto dei rapporti tra i nuovi governi di Gerusalemme e Washington. Se la questione degli insediamenti rappresenta il primo grande (e concreto) ostacolo all’avvio di nuove trattative tra israeliani e palestinesi, ai piani più alti nelle ultime settimane sembra essere tornato un po’ di sereno. Dopo l’incontro “glaciale” tra il presidente Obama e il premier israeliano Netanyahu alla Casa Bianca, i rapporti tra due leader sembrano in via di distensione. Il discorso di Obama all’Università del Cairo, accettato dal governo israeliano nel suo impianto generale, e quello di Netanyahu all’Università di Bar-Ilan, possono essere considerati un momento di 'riconciliazione' nonostante restino delle differenze di impostazione. Grazie a Netanyahu, per la prima volta il Likud ha riconosciuto la possibilità dell'esistenza di uno Stato palestinese, “demilitarizzato” e che riconosca Israele come “Stato ebraico”.
Ma per Netanyahu la questione degli insediamenti – unitamente alla soluzione dei due popoli per due Stati – non rappresenta solo un problema di politica estera e diplomazia internazionale. Il premier deve fare i conti con la popolazione israeliana e con una fragile coalizione di governo: è per questo che molti analisti hanno letto il discorso di Bar-Ilan come un appello ai propri concittadini, più che come risposta indiretta ad Obama. Secondo i primi sondaggi, l’accettazione di uno Stato palestinese – fortemente contrastato dalla destra estrema di Lieberman – avrebbe notevolmente innalzato il gradimento popolare nei confronti del premier in carica.
Resta tutto da gestire il rapporto con Lieberman che si trova a convivere nello stesso governo con Ehud Barak: il leader dei laburisti e ministro della Difesa, politicamente agli antipodi rispetto al ministro degli Esteri, preme per un immediato congelamento degli insediamenti (una posizione sostenuta anche dal presidente Shimon Peres). Ad appesantire il clima, concorre poi il fatto che Kadima – il partito guidato da Tzipi Livni, che ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi – siede all’opposizione e non fa sconti al governo. Per non parlare delle voci, mai sopite, secondo cui Obama e la sua amministrazione spingerebbero per la caduta del governo Netanyahu giudicato troppo di destra per sedersi al tavolo delle trattative con l’Anp di Abu Mazen.
L'Occidentale