Figlio dell’Italia e amante dell’America, Giuseppe Antonio Borgese ha dominato la scena culturale italiana del primo Novecento. L’autore siciliano ha scritto tantissimo ma solo negli ultimi anni – con la ripubblicazione di Atlante americano e l’imminente Autunno a Costantinopoli – l’editoria italiana sembra averlo riscoperto. A lamentare il “poco spazio concesso, non dico dalla manualistica scolastica, ma anche dall’editoria accademica a uno scrittore così interessante” è Annamaria Cavalli, docente di Letteratura italiana all’Università di Parma.
Professoressa, Giuseppe Antonio Borgese rientra a pieno titolo tra i dimenticati del Novecento. Perché?
È una bella domanda, ma non è facile rispondere. È probabile che pesino sul misconoscimento del suo valore varie circostanze, tra cui la decisa presa di distanza dal regime fascista, che lo indusse a un volontario espatrio in America e che probabilmente ne favorì la dimenticanza in Italia. A ciò potrebbe aggiungersi il forte dissidio con Croce e magari anche le stesse vicende familiari, con il divorzio americano dalla prima moglie Maria Freschi e le nuove nozze con la figlia di Thomas Mann, Elisabeth.
Dopo la sua morte, poco è cambiato…
Borgese, che in vita si è saputo difendere e anche – perché no? – ‘vendere’ con straordinaria efficacia, dopo la morte è stato quasi abbandonato. Pochi, seppur benemeriti, gli allievi, del tutto assenti i parenti, tranne qualche sporadico intervento del figlio Leonardo. Piuttosto latitante anche la critica accademica e quasi inesistente l’interesse editoriale; basti dire che non gli è stato dedicato nemmeno un “Meridiano”, che ormai non si nega a nessuno, nemmeno a scrittori senz’altro meno degni di considerazione… Ma ora, per fortuna, pare che le cose stiano cambiando. Alcuni testi si stanno ristampando, anche grazie alla convenzione stipulata tra il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Parma e la «Fondazione Borgese» di Polizzi Generosa, diretta da Gandolfo Librizzi.
Borgese è stato intellettuale a tutto tondo: romanziere, critico letterario, giornalista. Tra i suoi primi riferimenti giovanili figurano Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio, dal quale si distacca presto. Come hanno influenzato il giovane autore?
Fin dai suoi esordi Borgese si merita il plauso di Croce, che lo designa come la più bella speranza degli studi letterari italiani, pubblicandogli nel 1905 la sua tesi sulla Storia della critica romantica in Italia. In seguito il giudizio di Croce muta radicalmente e i rapporti tra i due sono segnati da più di uno spunto polemico. Troppo distanti risultano le rispettive concezioni sulla funzione della letteratura, che Borgese intende come imperativo etico.
E riguardo a D’Annunzio?
D’Annunzio è stato “una parte troppo viva” della storia di Borgese, per potere definire in modo semplice la relazione tra i due. Si tratta da parte del più giovane di un rapporto sofferto e complesso di amore e odio. Amore per la sua straordinaria creatività verbale, per quella sua eccezionale capacità di trasformare la parola in musica; odio per “la prepotenza di quel despota” e per tutta quella serie di orpelli e di artifici con cui il Vate cercava di celare la sua sostanziale inadeguatezza ad affrontare taluni temi drammatici.
Borgese ha scritto molti saggi critici sulla letteratura a lui contemporanea: come descriverebbe, a grandi linee, la sua idea di critica e di letteratura?
Borgese condividerebbe appieno l’ammonimento attuale di Tzvetan Todorov sulla Letteratura in pericolo e la sua convinzione che essa vada salvaguardata da ogni possibile sopraffazione da parte dei nuovi media, perché non solo ci aiuta a vivere, ma soprattutto ci aiuta a vivere meglio e in modo più consapevole. Quella di Borgese è sempre stata una critica come atto, addirittura interpretabile come missione. Le sue opere critiche rappresentano una miscela di grande attrattiva sia per il lettore di allora, che era guidato a comprendere con chiarezza le novità letterarie più degne di attenzione, sia per quello di oggi, che riesce a ricostruire con facilità il cosiddetto ‘colore del tempo’. Per Borgese fare critica era un modo di vivere e per lui la vita è sempre stata inscindibile da un impegno letterario che era anche un impegno etico.
La rottura col regime fascista rappresenta una cesura nella vita di Borgese. Quando sorgono i primi problemi?
In seguito alle insistenti polemiche sulla “vittoria mutilata”, Borgese viene accusato di sostenere tesi rinunciatarie: in realtà la sua era una visione illuminata, che mirava al raggiungimento di un rapporto di buon vicinato con la nascente Jugoslavia. Il comportamento di Borgese viene ritenuto “antinazionale” e gli articoli con cui aveva sostenuto il superamento dei nazionalismi esacerbati, del dannunzianesimo e del fascismo non verranno mai perdonati allo scrittore. Dopo sei anni di “lenta tortura”, nel luglio 1931 decide di imbarcarsi per gli Usa, dove si reca ad insegnare “Storia della critica ed estetica” all’Università di Berkeley.
E il soggiorno sarà molto lungo…
Quello che avrebbe dovuto essere un breve soggiorno di natura accademica si trasforma in una sorta di auto-esilio, in seguito alla mancata sottoscrizione del giuramento fascista richiesto ai professori. Con due lettere inviate al Duce nell’agosto del ‘33 e nell’ottobre del ‘34, lo scrittore prende posizione contro il regime, ed espone le sue idee sul giuramento come atto supremo della libertà, che dunque non può essere imposto per non trasformarsi in menzogna. Il rifiuto di prestare fedeltà al Pnf e gli strascichi dell’irrisolta questiona dalmatica, precludono a Borgese la possibilità di un rientro in patria, che avverrà solo a guerra conclusa, nel 1948.
Il soggiorno americano è alla base della sua opera più celebre, “Atlante americano”, un omaggio agli Stati Uniti e un mito per gran parte degli italiani degli anni Trenta. Qual è l'approccio dello scrittore alla realtà americana?
L’America rappresenta innanzitutto il risarcimento dell’inattività forzata a cui l’intellettuale era stato costretto in patria. Negli Usa Borgese trova il modo per condurre un’intensa ed appassionata opposizione al Regime, a partire dalla composizione del Goliath, in cui chiarisce il suo pensiero politico, indagando le ragioni e le caratteristiche del Fascismo. Nell’elaborare il suo giudizio sugli Stati Uniti, l’autore prende le distanze dalla convenzionalità delle condanne europee, e contesta le analisi generiche che pretendono di rivelare verità inoppugnabili sulla civiltà statunitense. Il suo obiettivo è piuttosto quello di penetrarne lo spirito e di comprenderne il risvolto umano, nella convinzione che “l’America è una grande cosa”, e non va giudicata superficialmente…
In America Borgese trova anche una seconda moglie, la figlia di Thomas Mann… Ci sono stati “rapporti lavorativi” con il suocero?
Certo. Ricorderò semplicemente la coproduzione del libro The city of man, la premessa di Mann al Disegno preliminare di una costituzione mondiale, oltre che diversi interventi critici borgesiani sull’autore della Montagna incantata, tra cui quelli compresi nel volume Da Dante a Thomas Mann, che fin dal titolo pare indicare un ideale tragitto tra due capisaldi della letteratura mondiale.
Solo un ultima domanda sul Borgese romanziere e la sua opera più celebre, “Rubè”...
Il tema dominante è quello più diffuso nella narrativa, non solo italiana, dei primi due decenni del Novecento, ovvero la ricerca di un ubi consistam e di un’identità, ricerca resa più drammatica in Rubé dallo sconvolgimento generale causato dalla guerra. In questo romanzo lo scrittore siciliano concentra il proprio impegno ‘riedificatorio’ col narrare il percorso di un uomo sullo sfondo di un grande affresco storico e sociale, cercando di rappresentare la vita in tutta la sua “immensità” e “organicità”. Ma per comprendere a fondo la parabola esistenziale di Filippo Rubé, bisognerebbe accostargli quella del protagonista dell’altro grande romanzo borgesiano, I vivi e i morti, un testo uscito due anni dopo l’altro, nel 1923, che ho recentemente sottratto a un lungo oblio. Entrambi i romanzi mantengono tuttora una validità non solo artistica ma esistenziale. Sono fatti per piacere ai giovani, almeno a quelli che si pongono domande sulla vita e sono, com’è giusto, un po’ utopisti.
L'Occidentale