31 agosto 2009

Giappone, la vittoria di Hatoyama fa rima con il cambiamento di Obama

“Una vittoria storica”, titolano i giornali. Dopo mezzo secolo di dominio ininterrotto, il Partito liberaldemocratico giapponese del premier Taro Aso è stato sconfitto dal Partito democratico di Yukio Hatoyama. “Credo che il popolo giapponese abbia votato per il cambiamento e contro le politiche del governo” ha dichiarato Hatoyama dopo la pubblicazione dei primi exit poll, mentre il premier sconfitto Aso – che ha parlato di “risultato molto severo” assumendosi la responsabilità della sconfitta – ha preannunciato le proprie dimissioni dalla carica di primo ministro.

Se è giusto parlare di svolta storica per il sistema politico giapponese, il risultato elettorale sancito dagli elettori giapponesi non giunge certo inaspettato: la sconfitta dei liberaldemocratici – immobilizzati dalla crisi internazionale e dalla voglia di cambiamento dei cittadini – era data per certa da tutti i sondaggi. Secondo i primi exit poll resi noti dalla tv pubblica Nhk, il partito di Yukio Hatoyama avrebbe conquistato più di 300 seggi sui 480 della Camera Bassa, e i primi voti scrutinati sembrano confermare la tendenza. Un’affermazione netta, alla quale bisogna aggiungere i seggi conquistati dal Partito socialdemocratico e dal Nuovo partito del popolo: un’alleanza tra le tre forze sancirebbe la nascita di una maggioranza numericamente schiacciante.

Svariati sono i fattori all’origine della vittoria democratica. Se la recessione globale e la disoccupazione (che a luglio ha toccato livelli record) non hanno certo aiutato il governo in carica, il leader democratico Hatoyama è riuscito a presentarsi come l’uomo vicino ai problemi della gente. Molte le promesse agli elettori: incentivi alle spese, una riforma pensionistica, lotta alla burocrazia, tagli alle tasse per le famiglie con bambini, tagli ai costi energetici. Progetti di difficile realizzazione, soprattutto in questi mesi di crisi economica: secondo alcuni analisti, i piani di spesa dei democratici finirebbero per incrementare ulteriormente l’enorme debito pubblico giapponese. Ma la possibilità (o l’illusione) di un cambiamento, dopo decenni di governi liberali, sembra comunque aver convinto buona parte degli oltre 100 milioni di elettori chiamati alle urne.

Ma al di là delle reali possibilità di cambiamento a fronte di una crisi economica tanto drammatica, qualche dubbio sulla portata della “rivoluzione democratica” viene però dalla stessa storia del partito e del suo leader. Nato nel 1998, il Partito democratico giapponese ha in forze molti ex militanti liberaldemocratici: lo stesso Hatoyama, insieme ad altri “ribelli”, ha lasciato il partito di governo nel 1993. Dopo aver partecipato alla fondazione del Partito democratico, ne ha assunto la leadership dal 1999 al 2002: molti, anche all’interno del suo partito, non lo reputavano in grado di fare opposizione in modo convincente. Pochi mesi fa, però, è tornato in sella in seguito ad uno scandalo sessuale che ha colpito l’ex leader del partito, Ichiro Ozawa.

Quella che si prospetta come una grande vittoria elettorale rappresenta allora anche una rivincita sui suoi critici: il cambiamento, promesso in campagna elettorale, sembra aver convinto gli elettori. Non si pensi, però, ad un nuovo Obama: Hatoyama, 62 anni, è un politico di lungo corso, proveniente – proprio come il premier sconfitto, Taro Aso – dall’establishment politico ed economico del suo Paese. “L’alieno” – come viene scherzosamente chiamato per la forma dei suoi occhi – è nipote di un ex primo ministro e figlio di un ex ministro degli Esteri, mentre il nonno materno è il fondatore della Bridgestone Corp; dopo aver studiato a Tokyo e Stanford, Hatoyama si è dedicato all’insegnamento e alla politica: nel 1986 entra in parlamento, tra le fila dei liberaldemocratici che – abbiamo visto – abbandona nel 1993.

Nessun outsider, dunque: il ricambio al governo sarà tutto interno all’establishment politico giapponese. Quali argomenti, allora, hanno convinto gli elettori? Hatoyama, per tutta la sua campagna elettorale, ha promosso il concetto di “fratellanza” (già caro al nonno): “Per come la intendo io – ha scritto il leader democratico sul mensile giapponese “Voice” – la fratellanza è un principio teso a mitigare gli eccessi dell’odierno capitalismo globalizzato, stimolando le economie locali e le nostre tradizioni”. Sul piano interno, inoltre, Hatoyama ha promesso una seria lotta alla burocrazia: lasciando l’iniziativa politica nelle mani dei burocrati non eletti, dice Hatoyama, il Partito liberaldemocratico ha finito per mettere insieme progetti “lontani dal sentire comune”. Secondo molti analisti, i progetti di Hatoyama restano però vaghi: “La sua miglior qualità è quella di non essere Aso (l’attuale premier, ndr) – dice Jeff Kingston, docente di studi asiatici a Tokyo – È una personalità, ma non è in grado di lasciare il segno”.

Più incisive appaiono le idee di Hatoyama in politica estera. Il Partito liberaldemocratico, sostiene il leader democratico, è stato troppo vicino alle politiche di sicurezza degli Stati Uniti: “L’attuale governo mi preoccupa – ha detto Hatoyama all’inizio dell’anno – perché fa tutto quello che gli chiedono gli Stati Uniti, anche se queste azioni non sono riconosciute dalle Nazioni Unite”. La fine della “sudditanza” nei confronti degli Stati Uniti (che resterebbero comunque un partner fondamentale), secondo il Partito democratico, dovrebbe essere accompagnata da più stretti legami con i principali protagonisti dello scenario asiatico. Hatoyama ha inoltre proposto una revisione della costituzione giapponese, al fine di riconoscere il diritto del Paese all’autodifesa per mezzo di un esercito stabile.

Le prime sfide del nuovo governo, comunque, riguarderanno la politica interna: i cittadini, infatti, pretenderanno presto le riforme economiche e sociali promesse in campagna elettorale. In attesa dei risultati definitivi, che verranno ufficializzati oggi dal ministero degli Interni, Hatoyama ha già convocato una riunione di maggioranza con i possibili alleati. Se ci sarà una rivoluzione, lo diranno i fatti. Quel che è certo, secondo il professor Gerry Curtis (esperto di Giappone della Columbia University), è che queste elezioni segnano “la fine del sistema politico giapponese emerso nel dopoguerra”: “È la fine di una lunga era, e l’inizio di una nuova fase ancora segnata dall’incertezza”.

L'Occidentale