Finita l’estate, è la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ad aprire la stagione autunnale dei grandi eventi culturali. Lo schema è quello usuale: film da tutto il mondo, grande attesa per un Leone italiano, una marea di vip, feste e lusso, polemiche e provocazioni. Cultura, insomma, ma anche quella dose di esibizionismo che ogni anno trasforma l’Excelsior – come scriveva nel '58 Oriana Fallaci – in un “compromesso fra il mercato del pesce e la Borsa valori di Milano: tutti si riuniscono lì per far vedere che esistono e perdere tempo in pettegolezzi”. E le cose, a distanza di cinquant’anni, non sembrano molto cambiate se l’arguto Aldo Grasso, osservando la sfilata iniziale sul red carpet, parla di “una festa di paese animata da una folla di ragazzini che chiedevano autografi a chiunque passasse da quelle parti”.
Da dove partire per raccontare il Festival numero 66? Da “Baarìa”, naturalmente. Del kolossal di Giuseppe Tornatore si è detto tutto: il duro lavoro, il set a Tunisi, i grandi attori, il menu della festa siciliana al Lido. L’accoglienza al Festival non ha sorpreso nessuno: fredda la critica, caldo il pubblico (cinque minuti di applausi, dieci per i reporter più ottimisti). A stupire, piuttosto, è stata la dichiarazione d’amore nei confronti della pellicola da parte di Silvio Berlusconi: “È un capolavoro assoluto, credo sia il film che mi ha impressionato di più e qualcosa di cui tutti dobbiamo essere orgogliosi”. E non basta: “Consiglio a tutti gli italiani di andarlo a vedere – continua il premier – perché credo sia impossibile essere italiani e non vedere un film così”.
Puntuali come un orologio svizzero arrivano anche le polemiche sul Cav. nella sua nuova veste di critico cinematografico. A difenderlo è la madrina del Festival, Mariagrazia Cucinotta: “Berlusconi nasce come produttore e come editore, in fondo è la sua antica stoffa che esce fuori”. Perché poi il premier ami così tanto “Baarìa” – prodotto da Medusa, fanno notare i maligni – è presto detto: il protagonista, racconta Berlusconi, è un comunista che scopre gli orrori del comunismo russo e si converte al riformismo. La querelle si è chiusa con una telefonata a Marzullo, occasione per rinnovare i complimenti al regista: “Gli ho detto che uno, dopo un capolavoro così, potrebbe anche morire”. Gelo in studio, poi il chiarimento: “Naturalmente era un complimento per la realizzazione di un’opera che credo sarà difficilmente eguagliabile…”.
Le tv del premier sono invece al centro di “Videocracy” di Erik Gandini: il film, che si è guadagnato un proiezione aggiuntiva, è stato presentato come un “racconto lucido e spietato di come la Tv in Italia ha preso il posto della democrazia” e delle conseguenze di un “esperimento televisivo” che gli italiani – cavie, senza saperlo – “subiscono da 30 anni”. Non è tutto: tra i registi in corsa per il Leone c’è infatti Michele Placido, che nel “Grande sogno” (protagonista il bello e impossibile Riccardo Scamarcio) rilegge quel Sessantotto in cui “i giovani sognavano di cambiare il mondo, le regole venivano infrante, l’amore era libero e tutto sembrava possibile”. Il Leone d’oro per le polemiche spetta però a “Francesca” del romeno Bobby Paunescu: dentro, per niente velata, c’è un’accusa di razzismo agli italiani, a cui Alessandra Mussolini – definita nel film “una ***** che vuole ammazzare tutti i romeni” – risponde chiedendo sequestro e risarcimento danni. Procacci, produttore, ringrazia per la pubblicità gratuita.
Niente di nuovo anche sul fronte della politica internazionale. In concorso figura l’inossidabile Michael Moore con la sua ultima fatica, “Capitalism: A Love Story”, rilettura comica della crisi economica internazionale: attesi protagonisti sono Wall Street e Lehman Brothers. Più serio sembra “South of the Border” di Oliver Stone (fuori concorso): il documentario, che parte dal Venezuela di Chavez, si allarga poi ad altri campioni della democrazia (Raul Castro su tutti). Non può mancare il Medio Oriente: in “Lebanon”, Samuel Maoz racconta la prima guerra del Libano (1982) dal punto di vista di una squadra di carristi israeliani. Molto atteso è infine “Green Days”, docufilm dell’iraniana Hana Makhmalbaf aggiunto in extremis al programma della kermesse: la regista, figlia del portavoce di Moussavi, racconta le recenti proteste degli studenti contro Ahmadinejad e la triste condizione della donna a Teheran.
Si è visto: gli spunti critici, ideologici e polemici non mancano. Venezia, però, è anche (o dovrebbe essere?) semplicemente cinema. Nella corsa al Leone, nutrita è la pattuglia degli italiani: insieme a Tornatore e Placido, concorrono anche Giuseppe Capotondi (“La doppia ora”) e Francesca Comencini (“Lo spazio bianco”). Grande è poi l’attesa per gli americani: dopo il successo di “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen, John Hillcoat ha trasposto sullo schermo “The Road” del Pulitzer Cormac McCarthy, che perà sembra non scaldare la platea; George Romero, con “Survival of the Dead”, torna all’horror (e sull’onda lunga del successo di “Lost”); e se Todd Solondz, in “Life During Wartime”, gioca la carta del dramma sociale condito di sarcasmo, Tom Ford – che in “A Single Man” schiera Colin Firth e Julianne Moore – racconta la vita del professor Falconer nella Los Angeles del 1962.
Di americano, a dire il vero, ci sarebbe anche un altro film: “The Men Who Stare at Goats” di Grant Heslov, che verrà presentato fuori concorso martedì 8 settembre. Il film – con attori del calibro di George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges e Kevin Spacey – è un thriller fantascientifico, forte di “monaci guerrieri con poteri psichici incomparabili” in grado di “uccidere una capra semplicemente fissandola”. Roba per palati fini, non c’è che dire. Peccato però che gli amori del bel George abbiano rubato la scena a regista e pellicola. Anzi, a dirla tutta, per molti sarà l’8 settembre – e non la giornata finale – il momento cruciale di questo Festival: altro che Leone, quello che davvero interessa sapere – dopo le succulente anticipazioni del “Daily Mail” – è se George si presenterà in laguna a fianco di Elisabetta Canalis. E se il fascino di Venezia spingerà il divo di Hollywood a chiederla in moglie. Che volete? I film passano, ma un anello è per sempre.
Questo zibaldone festivaliero potrebbe anche chiudersi qui, con un breve accenno alla riabilitazione di Tinto Brass che presenta la sua ultima fatica (fuori concorso, chiaro). All’appello, però, manca un altro (classico) genere di polemiche: quelle che puntualmente, anno dopo anno, partono dal Lido per passare a Venezia e ai veneziani, al loro rapporto con il cinema, al significato della Mostra e al futuro della città stessa. Quest’anno, a dire il vero, il sasso lo ha lanciato a luglio il ministro Brunetta, che ha definito Venezia “una città mercificata e svenduta da una classe di rigente che ha alzato bandiera bianca su Palazzo Grassi e sulla Punta della Do gana, rinunciando a qualsiasi proget tualità per il futuro, inalberando enor mi cartelloni pubblicitari che non han no uguali al mondo per volgarità”. È seguito un breve dibattito tra intellettuali, politici, critici e gondolieri: poi, arrivato agosto, tutti se ne sono andati al mare.
A riaccendere la miccia, nella giornata inaugurale del Festival, è l’inviato del “Giornale” Solinas, che descrive un Festival “invecchiato, ma che si vuole rinnovare”. Strutture carenti, restauri mai completati, l’attesa per un nuovo Palazzo del Cinema che dovrebbe arrivare nel 2011 (150° dell’Unità d’Italia). Ma se “per il Mose ci sono voluti quarant’anni, e ancora non è detto, per la Fenice un decennio, sotto il ponte di Calatrava si è accumulata una laguna di polemiche”, continua Solinas, c’è poco da stare allegri. Dalla Mostra del Cinema, il problema si sposta allora al discorso su Venezia-Disneyland: per dirla con Guccini, alla città che vende ai turisti “la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi”. Ed è effettivamente un problema, perché – scrive Solinas –“sarà anche vero che il turismo è una risorsa, ma quando diventa l’unica risorsa il risultato è una città morta”.
Viene da chiedersi quanto i veneziani amino la Mostra del Cinema. Poco, sostengono alcuni: il Festival è lontano dalle strade, blindato dietro passerelle e cordoni di sicurezza, inaccessibile ai comuni mortali con pochi soldi sa spendere. Che fare allora? Rinnovare la kermesse? Sperare in nuovi fondi che permettano le attese ristrutturazioni? Per avere una risposta, c’è da scommetterci, dovrà scorrere molta acqua sotto i ponti. Nel frattempo, il Festival del Cinema rimarrà lì dov’è, e noi continueremo a parlarne. Nella speranza che Clooney sbarchi presto al Lido con sua moglie Elisabetta e, perché no, un bel bambino in braccio.
L'Occidentale