25 ottobre 2009

Giani Stuparich è una delle tante vittime illustri della scuola italiana

Come qualche lettore ricorderà, il viaggio de “L’Occidentale” tra i dimenticati del Novecento ha avuto inizio nella Trieste di Bobi Bazlen: oggi, a distanza di qualche mese, torniamo nel capoluogo del Friuli-Venezia Giulia per raccontare un altro grande scrittore, Giani Stuparich. A parlarci della sua vita, delle sue idee e delle sue opere è la professoressa Anna Storti Abate, docente di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Trieste

Professoressa, che fine ha fatto Giani Stuparich?

Forse dal mio osservatorio triestino ho una percezione sbagliata della fortuna dello scrittore, ma a me non sembra che Stuparich sia un autore dimenticato. Non qui a Trieste, per lo meno. Sono uscite nuove edizioni delle sue opere più importanti, è stato pubblicamente ricordato lo scorso anno nel ciclo di conferenze che il Comune ha dedicato alla memoria della grande guerra, sono usciti e sono in corso studi critici sulla sua opera. Mi sembra che, se Stuparich non tocca vertici di celebrità come altri autori triestini, vi sia una attenzione costante e mai sopita per la sua opera.

Perché allora il mondo della scuola non gli dedica più spazio?

Devo riconoscere che Stuparich forse non è molto popolare, ma il discorso vale per molti altri autori della letteratura novecentesca. Quanti scrittori del Novecento sono entrati nel “canone” scolastico? Davvero pochi. E tra questi, molti, pur indicati come importanti, sono ugualmente poco letti in classe. Qualche anno fa un ministro aveva stabilito che l’ultimo anno della scuola secondaria fosse dedicato interamente allo studio del secolo XX, ma la direttiva è rimasta prevalentemente inapplicata. E Stuparich è una delle tante vittime illustri dell’incapacità della scuola italiana di affrontare la contemporaneità.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, lo scrittore si arruolò nel 1° Reggimento Granatieri di Sardegna. L’esperienza è drammatica: perde il fratello e viene internato nei campi di concentramento austriaci. Perché scelse di andare in guerra?

Lo scoppio della guerra, nel 1914, aveva rappresentato per Stuparich una sconfitta, il crollo degli ideali coltivati fino allora, di cooperazione spontanea dei popoli verso un obiettivo comune di civile convivenza. Tuttavia, dopo l’inizio del conflitto europeo, anch’egli si era convinto – come Slataper e altri rappresentanti dell’interventismo democratico – che ormai l’unica possibilità perché gli italiani della Venezia Giulia vedessero riconosciute le loro aspirazioni nazionali era che l’Italia dichiarasse guerra all’Austria, a fianco dell’Intesa. Aderì alla guerra come a una necessità, pur rilevando la contraddizione irrisolta esistente tra i suoi ideali liberal-democratici e le aspirazioni nazionali che ormai potevano trovare soddisfazione solo in quel modo violento.

Quali ha effetti ha sortito la guerra sulla sua poetica?

Il conflitto permise la realizzazione degli ideali nazionali, ma non venne mai mitizzato dallo scrittore, che, pur non rinnegando le motivazioni che lo avevano indotto a parteciparvi, tuttavia fu sempre molto fermo, per tutta la vita, nel denunciare le atrocità delle guerre e l’inutile sperpero di vite che esse comportano. A questo tema dedicò buona parte della sua opera - memorialistica, narrativa e saggistica - fino all’ultimo romanzo, Simone, che, pur ambientato in un’altra epoca, è dominato dal pensiero minaccioso e opprimente di un nuovo possibile conflitto nucleare.

Dalla prima guerra mondiale derivano alcune delle sue opere più importanti, tra cui Colloqui con mio fratello e Guerra del ‘15. Cosa ci può dire di questi libri?

I Colloqui con mio fratello sono un libro di scavo interiore e di riflessioni filosofiche in dialogo immaginario col fratello Carlo, morto eroicamente nel conflitto. Stuparich vi si dedicò dopo il rientro dalla guerra e dalla prigionia, allo scopo di fare i conti con quelle esperienze dolorose e rielaborare il lutto. Guerra del ’15, che uscì nel 1931, è il frutto della risistemazione degli appunti presi a caldo durante i due primi mesi di guerra a Monfalcone, quando Giani partecipò nelle trincee del Carso alle prime due sanguinose battaglie dell’Isonzo. Il libro conserva tutte le caratteristiche di immediatezza e vivacità, tipiche della scrittura a caldo, ed è oggi ancora molto interessante non solo e non tanto per chi voglia conoscere i momenti del conflitto dei quali lo scrittore fu testimone e partecipe, ma soprattutto per chi sia interessato a comprendere le reazioni psicologiche individuali di un giovane volontario di fronte alla realtà brutale, per molti aspetti imprevista, della guerra: le fatiche fisiche, i disagi derivanti dalla sporcizia, dal fango, dal puzzo, dai disturbi fisici, dalla mancanza di sonno, la constatazione dell’impreparazione dell’esercito italiano, e, cosa più terribile per lui, la scoperta della difficoltà a stabilire rapporti umani con i commilitoni e con molti ufficiali.

La brutalità della guerra letta con la sensibilità di uno scrittore, insomma…

Sì. In opposizione alla retorica bellicista del fascismo, Stuparich preferisce sottolineare le conseguenze generate dalla guerra sulla natura e sull’uomo, le conseguenze psichiche che essa produce, l’incrinatura che essa genera perfino nei valori morali e ideali più alti, e il lettore viene inevitabilmente indotto a una condanna universale della guerra, come di una realtà malefica in grado di travolgere tutto e tutti e di portare i suoi influssi anche nel più profondo delle coscienze degli uomini e delle donne.

Con l’avvento di Mussolini, Stuparich va incontro ad altri drammi, tra cui un breve internamento alla Risiera di San Sabba. Quali sono stati i suoi rapporti con il regime?

Giani Stuparich - come il fratello Carlo - fu insignito della medaglia d’oro al valor militare, era uno degli eroi di guerra attorno ai quali il fascismo costruì un mito retorico fondamentale della sua propaganda. Per questo venne sempre blandito dal regime, che avrebbe gradito e caldeggiato l’appoggio esplicito dello scrittore, il quale invece durante il ventennio non pronunciò mai una sola parola a sostegno del regime, rifiutò la tessera del partito e preferì condurre una vita appartata, dedicandosi interamente all’insegnamento e all’attività di scrittura. Tutti coloro che sono stati suoi allievi concordano, però, nel ricordare la lezione di libertà che Stuparich seppe trasmettere nella scuola, controcorrente rispetto alle parole d’ordine del regime.

Stuparich ha sfidato apertamente il fascismo?

Nelle rarissime occasioni in cui non potè sottrarsi alla necessità di parlare in pubblico, i suoi interventi furono certamente estranei alla retorica ufficiale. Ne è un esempio il discorso tenuto, nel 1923, ai docenti e agli studenti del “suo” Liceo Dante, in occasione del rientro della salme dei triestini caduti nella I guerra mondiale: un discorso tutto imperniato sui valori della pace e assolutamente contrario alla retorica celebrativa del “combattentismo” e della guerra allora imperante. Con il passare del tempo, per la sua sempre più evidente irriducibilità alle direttive del regime - soprattutto dopo il successo del romanzo Ritorneranno –, lo scrittore fu fatto oggetto di una campagna di stampa, dalla quale derivò anche l’episodio dell’arresto da parte delle SS tedesche e dell’imprigionamento nella Risiera di San Sabba.

La biografia di Stuparich ci porta a parlare dei rapporti con la sua città… Qual è stato il ruolo dello scrittore nella lotta per una Trieste italiana?

Ci sono due momenti nella storia di Trieste, e quindi nella vita di Stuparich, in cui si pose con forza la questione dell’italianità della città e della Venezia Giulia. Il primo, di cui abbiamo già parlato, è quello della battaglia interventista, che vide Stuparich, che non aveva mai voluto confondersi con gli irredentisti (e che rifiutò sempre per sé questa definizione), combattere al loro fianco a favore dell’intervento dell’Italia contro gli Imperi centrali e poi coerentemente arruolarsi volontario nel 1915. Il secondo momento è quello della fine del secondo conflitto mondiale, quando il destino di Trieste rimase per lunghi anni sospeso o oggetto di contrattazione fra le potenze vincitrici. Stuparich visse con profondo dolore le drammatiche vicende che segnarono la storia di Trieste e dell’Istria nel secondo dopoguerra (l’occupazione jugoslava, quella degli alleati, la divisione della zona A dalla zona B, l’esodo degli italiani dall’Istria) e denunciò il fatto che i destini dei popoli ancora una volta venissero decisi dai potenti del mondo, incuranti delle aspirazioni e delle esigenze delle popolazioni. La sofferenza era acuita dalla piena consapevolezza che, di fronte al sovvertimento che stava coinvolgendo l’Europa e il mondo intero - con la divisione in blocchi, la guerra fredda, ecc. –, la questione di Trieste e il dramma delle popolazioni giuliane non potevano che apparire come marginali.

Due opere di Stuparich – L’isola e Ritorneranno – hanno ottenuto un grande apprezzamento critico. Lei cosa pensa di questi libri?

L’isola è un gioiello, per la capacità dello scrittore di condensare nella dimensione del racconto una grande ricchezza di motivi, affrontati con felice semplicità e linearità di stile: il complesso rapporto con il padre, di cui il protagonista scopre le qualità e i valori solo pochi giorni prima della sua morte, il confronto della visione del mondo di due generazioni, il legame con l’isola da cui era venuta la sua famiglia, rappresentata nelle sue luci e i suoi colori e nella forza delle sue genti. Ritorneranno non ha la stessa perfezione. È un lungo romanzo, non esente da difetti, che narra la storia di una famiglia triestina, divisa e travolta dalle vicende della prima guerra mondiale: la narrazione è talvolta prolissa, altre volte tendente al patetismo. Ma nonostante ciò è un’opera interessante e al tempo stesso coinvolgente…

Perché?

Interessante, perché vi troviamo efficacemente rappresentati molti temi che la storiografia più recente ha indicato come caratteristici della prima guerra moderna, di massa, e anche molte questioni scomode (la disorganizzazione dell’esercito italiano, gli errori strategici compiuti dagli alti comandi militari, la superbia di classe degli ufficiali incapaci di parlare ai loro uomini); vi si narra inoltre anche un episodio che la storiografia nazionalista cittadina aveva preferito passare sotto silenzio: la manifestazione attuata dal proletariato triestino il 24 maggio 1915 contro l’ingresso in guerra dell’Italia. Coinvolgente, per la comprensione, che lo scrittore è in grado di comunicare, dello stato d’animo dei combattenti, non solo di quelli italiani ma anche di quelli che avevano combattuto dall’altra parte e che avevano provato sofferenze non dissimili. Questa fu una delle ragioni, credo, per le quali questo libro fu tanto amato dai reduci della seconda guerra mondiale e continua a trasmettere un sentimento di solidarietà umana, che di per sé porta al rifiuto di ogni forma di conflitto.

Quale opera di Stuparich, a suo parere, meriterebbe di essere riscoperta?

Trieste nei miei ricordi. È un testo nel quale si intrecciano memorialistica e saggistica storica e filosofica, analisi della realtà e scavo interiore, riflessioni ed emozioni, pubblico e privato, in una sintesi originale, che rende questo libro, a mio avviso, uno dei più belli dello scrittore triestino.

Oltre che letterato, Stuparich ha scritto per molti giornali – “La Voce”, “La Stampa”, “Tempo” – e ha lavorato per “Radio Trieste”. Cosa ci dice dello Stuparich giornalista?

L’esordio nel mondo delle lettere di Stuparich avvenne proprio sulle pagine di una rivista, «La Voce» fiorentina, che pubblicò nel 1913 i suoi primi scritti sull’Austria e sulla Boemia. Lo scrittore ebbe poi una breve esperienza di giornalismo militante nel 1919, quando ottenne l’incarico di corrispondente da Trieste dell’«Azione» di Genova. Ma gli bastarono pochi mesi per capire che quel lavoro non faceva per lui, a causa dei ritmi incalzanti che imponeva alla scrittura. Tuttavia, come lei ricordava, non abbandonò del tutto la collaborazione con la stampa quotidiana, anche se prevalentemente con scritti d’altro genere, con “elzeviri” per la terza pagina, nei quali poteva esporre, nelle forme pacate che gli erano più congeniali, le proprie riflessioni sulle questioni più varie, di natura politica, morale, storica, letteraria. Pubblicò anche alcuni racconti, che solo in parte vennero riproposti nella raccolte di novelle pubblicate in seguito.

Lo scrittore ha collaborato con i periodici fino alla fine della sua vita…

Dal 1932 al 1961, l’anno della morte, pubblicò una mole considerevole di scritti, alcune centinaia di pezzi, che recentemente sono stati editi – in parte - in due volumetti antologici da Sandra Arosio, che in tal modo ha salvato dall’oblio questi scritti. Non si tratta di esercizi di stile fini a se stessi, tipici di quella “prosa d’arte” che caratterizzava al tempo le terze pagine dei giornali, ma di prose sostenute da un forte impegno morale, nelle quali trasmetteva con sincerità la sua visione del mondo e i valori umani nei quali credeva fermamente. In questi scritti si coglie l’urgenza di entrare in sintonia con un pubblico di lettori vasto ed eterogeneo, condividendone affetti, preoccupazioni, sofferenze. Questo è particolarmente evidente negli scritti che risalgono al ventennio, nei quali si affrontano temi solo apparentemente astorici, in realtà oggettivamente opposti ai miti e alla retorica ufficiale. La stessa ansia comunicativa è percepibile nelle conversazioni radiofoniche di Stuparich, anch’esse molto numerose e pubblicate in minima parte, che sono un terreno ancora tutto da esplorare da parte degli studiosi.

L'Occidentale