“Caro ambasciatore Powell, è con grande rammarico e delusione che rassegno le mie dimissioni dal ruolo di funzionario politico del Servizio Estero e rappresentante civile del governo statunitense nella provincia di Zabul”. A prima vista sembrerebbe una lettera di dimissioni come tante, ma il testo in questione – datato 10 settembre e firmato Matthew P. Hoh – rappresenta invece un duro colpo per la politica estera americana e l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Pubblicata con grande enfasi dal “Washington Post” e accompagnata da un’intervista all’autore dimissionario, la lettera va infatti a colpire molti nervi scoperti: la guerra in Afghanistan, il suo significato e le reali possibilità di vittoria contro i talebani.
Andiamo con ordine. Matthew Hoh è un fiore all’occhiello del ministero della Difesa statunitense: ex capitano dei Marine, il ragazzo lavora al Pentagono e in seguito al dipartimento di Stato americano in Iraq. Una carriera brillante, culminata con un prestigioso incarico in qualità di funzionario del Servizio Estero nella provincia afgana di Zabul: “Era un’occasione – spiega Hoh a Karen DeYoung del “Washington Post” – per utilizzare le abilità di sviluppo imparate Tikrit, sotto una nuova amministrazione che aveva promesso una nuovo approccio militare”. Il primo incarico di Hoh in Afghanistan è quello di rispondere a una domanda strategica: perché l’esercito americano ha operato per anni nella valle di Korengal, dove sono morti molti soldati?
Hoh indaga, e presto trova una risposta: “Per nessuna ragione”. La gente del Korengal, secondo Hoh, non voleva gli americani, e le rivolte nella regione sono incominciate solo dopo l’arrivo dell’esercito: l’esperienza, osserva il funzionario, “mi ha insegnato quanto fossero localizzate le insurrezioni. Un gruppo in questa valle non ha nessuna connessione con gruppi distanti non più di due chilometri”. L’esperienza di Korengal è all’origine dei primi dubbi di Hoh, rafforzatisi in occasione di elezioni – quelle del 20 agosto, il cui risultato è stato annullato dalle Nazioni Unite – caratterizzate da scarsa affluenza e da brogli macroscopici. La misura è colma: Hoh si dimette, sperando di convincere tutti gli americani che le cose in Afghanistan non vanno per niente bene.
Arriviamo così alla lettera, un vero e proprio “memoriale strategico” di quattro pagine scaricabile dal sito del “Washington Post”. Prima di tutto, Hoh spiega il perché delle dimissioni: “Nel corso di cinque mesi di servizio, ho perso la comprensione e la condivisione dei motivi alla base della presenza americana in Afghanistan”. In altre parole, “come fecero i sovietici, continuiamo a proteggere e sostenere uno Stato fallimentare, incoraggiando un’ideologia e un sistema di governo sconosciuto e non voluto dalla popolazione”. Persino l’insorgenza delle valli Pashtun, agli occhi del funzionario, è comprensibile: i militanti, infatti, “non combattono per i talebani, ma contro la presenza di soldati stranieri e le tasse imposte da un governo non riconosciuto”.
Gran parte delle riflessioni di Hoh è incentrata sul governo nazionale, principale ostacolo della strategia americana in Afghanistan. Quattro, secondo il funzionario, sarebbero gli errori commessi da Karzai, incurante “delle vite e dei dollari persi dagli americani”: non aver combattuto la corruzione e i traffici illeciti, aver scelto signori della droga e della guerra come collaboratori, aver favorito l’ascesa di leader provinciali del tutto disinteressati alla pacificazione del Paese e, per finire, l’essere corresponsabile delle enormi frodi registrate in occasione delle elezioni del 20 agosto. “Il nostro supporto a un simile governo – osserva Hoh – insieme all’incapacità di comprendere la vera natura dell’insurrezione, mi ricorda orribilmente il nostro impegno nel Vietnam del Sud”.
Passando alle forze militari, Hoh non mette in discussione la loro qualità: “Nessuna nazione ha mai conosciuto un esercito maggiormente impegnato, ben addestrato, con esperienza e militarmente disciplinato”. Il problema, insomma, non sono gli uomini ma la strategia: “Questi non sono i teatri europei della Seconda Guerra mondiale”, sottolinea il funzionario, “ma è una guerra diversa, per la quale i nostri leader non hanno preparato a sufficienza i nostri uomini sul campo”. Senza contare, passando al problema del terrorismo internazionale, che per prevenire un ritorno di al-Qaeda in Afghanistan “dovremmo invadere anche il Pakistan, la Somalia, il Sudan, lo Yemen…”: una provocazione, certo, ma resta il fatto che “per seguire la logica alla base dei nostri obiettivi dovremmo presidiare il Pakistan, non l’Afghanistan”.
La lettera di Hoh – che si chiude con un ricordo di “tutti gli uomini e le donne che sono ritornati a casa con ferite fisiche e mentali, molte delle quali non si rimargineranno più” – ha colpito l’America: “Potete leggere molti editoriali sull’Afghanistan – ha scritto Jonathan Alter su “Newsweek” – di gente che non sa di cosa stia parlando, oppure potete leggere Hoh”. Il “Washington Post”, tra l’altro, ha reso nota l’intervista al funzionario nelle stesse ore in cui, con la perdita di otto soldati americani, quello di ottobre è diventato il mese con il maggior numero di morti statunitensi dal 2001 ad oggi. Senza contare, ovviamente, che proprio in queste settimane il presidente Barack Obama dovrebbe prendere una decisione dell’invio dei nuovi rinforzi richiesti dal generale Stanley McChrystal.
A questo proposito, secondo il “Christian Science Monitor”, “Matthew Hoh, forse non volontariamente, è diventato il ragazzo immagine del vice Presidente Joe Biden e di tutti gli americani che guardano con scetticismo ad un incremento delle truppe in Afghanistan”. Un tema sul quale Obama, secondo quanto dichiarato dal portavoce Gibbs, si esprimerà presto: già questo fine settimana, infatti, è in programma un incontro tra il presidente e i vertici delle forze armate. Nell’ormai celebre intervista al “Washington Post”, Hoh non ha risparmiato i consigli: per il futuro, il funzionario “suggerirebbe una riduzione delle truppe”, “maggior supporto al Pakistan”, “miglior comunicazione e propaganda nei confronti della popolazione” e “pressione su Karzai perché faccia piazza pulita della corruzione al governo”. Staremo a vedere.
L'Occidentale