05 dicembre 2009

Vittime del terrorismo. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele

La sera del 1° giugno 2001 molti ragazzi erano in coda all’entrata di una rinomata discoteca di Tel Aviv, il Dolphinarium. Aspettavano il loro turno, pronti a ballare dopo una settimana di studio. Alle 23.30, un boato fortissimo: Saeed Hotari, un terrorista suicida, si fa esplodere. Le vittime sono 21, tutte troppo giovani per la morte: Maria Tagiltseva, la più piccola, ha solo 14 anni. Le foto della mattanza hanno fatto il giro del mondo: “Giovani senza mani e con la faccia in poltiglia, una pioggia di sangue, cadaveri e tronchi umani”. Tra le vittime c’erano anche due sorelle, Yulia e Yelena, di 16 e 18 anni: “Che possiamo essere tutti iscritti nel Libro della vita”, ha scritto la loro madre.

La strage del Dolphinarium è solo un frammento di “Non smetteremo di danzare”, il libro dedicato da Giulio Meotti alle “storie mai raccontate dei martiri d’Israele”. L’autore, molti lo conosceranno, è un bravo giornalista del “Foglio” che nel 2004 ha deciso di dare un volto alle vittime degli attentati contro la popolazione israeliana. È stato un duro lavoro, durato cinque anni, in cui Meotti ha cercato i familiari dei caduti, ha conquistato la loro fiducia e li ha lasciati parlare. E il risultato è uno dei libri più importanti (e più belli) di questo 2009, un’opera che – scrive Scruton nell’introduzione – invita “a sbarazzarci della nostra doppiezza e riconoscere il diritto di Israele a esistere e del suo popolo a difendersi”.

Dietro ai volti delle vittime, ritratti anche in belle fotografie, c’è la forza della vita messa a dura prova dal terrorismo. Gli israeliani, ricorda l’autore, “hanno dimostrato di amare la vita più di quanto temano la morte”: ed ecco perché, nonostante i morti e gli oltre 10.000 feriti, questo popolo non smetterà di danzare. Il racconto delle loro vite, al di là della commozione, dovrà quindi aprire gli occhi agli occidentali: “Se si fa la proporzione tra quei 1723 morti e la popolazione degli Stati Uniti” scrive Meotti, “gli americani uccisi in dieci anni sarebbero 74.000”. Numeri francamente intollerabili per l’Europa che ha visto e sconfitto l’Olocausto.

Il viaggio del giornalista inizia a Monaco nel settembre 1972, quando 11 atleti israeliani vennero rapiti dal villaggio olimpico e successivamente uccisi. I giochi non si fermarono, neppure di fronte ai “primi ebrei uccisi in quanto ebrei in Germania dal 1945”: un segnale inquietante, una spia del sangue che verrà versato negli anni successivi. Alcuni di quegli atleti, inoltre, erano figli della notte di Auschwitz e in questi casi “oltre all’uomo e alla sua storia, affidata ormai a strumenti audiovisivi, il kamikaze si porta via anche uno degli ultimi testimoni della Shoah”. Per chi ancora oggi vuole sterminare gli ebrei, del resto, colpire un superstite dell’Olocauso rappresenta un omicidio perfetto, il completamento di un processo interrotto bruscamente nel 1945.

Sono molte le emozioni e i dolori che riempiono “Non smetteremo di danzare”. È difficile trattenere la commozione di fronte a David Applebaum, un uomo che ha dedicato la propria vita a salvare i feriti degli attentati: tornato da New York per tenere una conferenza sul terrorismo, è vittima a sua volta di un kamikaze al Caffè Hilel di Gerusalemme; con lui, muore la figlia Navah. Una storia simile a quella di Moshe Gottlieb, un chiropratico conosciuto come il “guaritore dei bambini Down”, che insieme ad altri 18 israeliani viene dilaniato nella città santa. Morti paradossali per uomini che hanno speso una vita nell’alleviare il dolore altrui.

Ciò che più colpisce nei racconti di Meotti è forse la quantità di giovani vittime del terrorismo. E non è un caso: l’attentatore, infatti, cerca di colpire là dove la vita è più forte. Attaccando il Moment Cafè di Gerusalemme, ad esempio, il terrorismo ha preso di mira gli universitari: tra i morti ci sono Danit Dagan e Uri Felix, prossimi al matrimonio, e Livnat Dvash, appena operata di cancro. Diego Ladowski è un altro studente vittima di un attentato alla caffetteria dell’università del Mount Scopus, sempre affollata di ragazzi in transito da una lezione all’altra. Eppure i giovani israeliani continuano a studiare, continuano a bere il caffè nella propria università e il sabato sera si mettono in coda per andare a ballare: la giovinezza, vuole dirci questo libro, è più forte del terrore.

Un discorso a parte meritano poi le donne. Insieme ai giovani, le madri, le nonne, le mogli e le fidanzate sono una pagina importante nel terribile libro delle vittime israeliane. Sara Blaustein aveva lasciato la comoda New York per andare a vivere in Israele, nella colonia di Efrat, e ogni mattina andava a visitare la tomba di Rachele, dividendo le sue giornate tra studio e preghiera: il terrore se l’è portata via. E dev’essere stato un istinto primordiale a muovere Sharon Ben-Shalom, che al momento dell’esplosione si è gettata sulle figlie facendo loro da scudo: le piccole sono sane e salve, mentre Sharon non c’è più, vittima di un odio che colpisce indiscriminatamente e senza alcuna pietà.

Nei pressi del Dolphinarium, sul lungomare di Tel Aviv, oggi una scritta recita: “Scegli la vita, non smetteremo di danzare”. E le vittime della discoteca “non hanno mai smesso di danzare, sono vivi nella memoria del loro popolo”: vivi come il giornalista Daniel Pearl, morto dopo aver ricordato senza indugio ai suoi assassini che “mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo”. Tanti morti, tante famiglie distrutte, troppi feriti che non potranno più camminare: Giulio Meotti li ha consegnati alla storia con un libro coraggioso, ricordandoci che dal dolore può nascere la vita. Se resta il ricordo, e se il ricordo diventa esempio, la morte non può vincere: gli israeliani lo sanno bene, e non smetteranno di danzare.

L'Occidentale