24 gennaio 2010

Diamo ascolto alla prosa di Bilenchi e sentiremo il rumore del tempo

Qualche settimana fa, l’Occidentale si è occupato della passione politica di uno scrittore italiano sospeso tra fascismo e comunismo: Romano Bilenchi. A pochi mesi dalla pubblicazione delle Opere complete per i tipi di Rizzoli, torniamo sull’autore per parlare della sua formazione culturale, dei suoi amici, delle sue opere e dei temi a lui più cari. Ci guiderà il professor Marino Biondi, docente di Storia della critica presso l’Università degli Studi di Firenze, che per molti anni ha studiato gli scritti bilenchiani, dai racconti di uno scrittore in cui “si sente il rumore del tempo” agli articoli usciti dalla penna di un “giornalista eminente”.

Professor Biondi, perché – al di là del centenario celebrato lo scorso anno – Bilenchi è stato così trascurato dalla cultura istituzionale italiana?

Non sono d’accordo sul fatto che Bilenchi sia stato trascurato. Altri scrittori sì, lo sono stati, ma non Bilenchi. E a non dimenticarlo è stata proprio la cultura istituzionale, cioè la critica più autorevole: per intenderci, la critica dalla quale è dipesa (almeno un tempo) la formazione del cosiddetto “canone”. Basterebbe indicare due nomi, quelli di Contini e di Maria Corti, per ricordare come la variantistica bilenchiana sia stata al centro dell’attenzione della critica formale.

Se guardiamo al Novecento italiano, però, sono molti gli autori più conosciuti (e letti) di Bilenchi…

Certo, Bilenchi non è uno scrittore che possa vantare la popolarità di un Pratolini o di un Moravia (popolari sì, ma anche dimenticati), e attualmente quella di Calvino, citatissimo, studiatissimo… Ma la sua opera è stata seguita e analizzata con grande impegno, senza contare che di Bilenchi e della sua personale vicenda all’interno della cultura del fascismo si è occupata – e continua ad occuparsi – la storiografia politica. Ricordo infine l’Associazione “Amici di Bilenchi” di Colle Val d’Elsa, che molto si adopera perché la fama dell’autore non decada.

Leggendo una biografia di Bilenchi, un neofita viene subito colpito dal rapporto con la politica. Prima l’adesione al fascismo, seppur da posizioni di sinistra, poi la rottura col regime e la militanza nel partito comunista, segnata anche in questo caso da forti dissidi. Cosa hanno rappresentato, per lo scrittore, queste due realtà ideologiche?

Effettivamente Bilenchi è stato uno scrittore profondamente implicato con l’ideologia e la politica nella storia italiana del Novecento: prima il fascismo, poi il comunismo. La politica lo ha sempre avvinto come impegno, passione, idea di partecipazione a una storia collettiva, e per lui ha rappresentato un coinvolgimento personale in un pubblico destino dei popoli. Il suo fascismo fu radicale, con venature squadristiche (“giustizialiste”, si direbbe oggi), un fascismo marcatamente mussoliniano… direi quasi un mussolinismo leaderistico e carismatico, in attesa della mitica terza ondata, quella della rivoluzione sociale, che non ci fu né poteva esserci.

Da qui il cambio di militanza…

Reduce dalle illusioni del fascismo, subito dopo la guerra di Spagna Bilenchi migrò – con il suo bagaglio di ideali infranti, ma di attese non sopite di giustizia sociale – sulla sponda comunista: fu accusato di avere fatto il salto della quaglia, ma c’era un’intima coerenza. Qui si scontrò – da libero intellettuale, da giornalista eminente – con il verticismo dirigista di un partito che, se non poteva essere totalitario nell’Italia democratica, era per lo meno autoritario al suo interno.

Qual è il suo giudizio sul Bilenchi giornalista?

L’ho appena detto e lo ripeto, è stato giornalista eminente. Bilenchi non ha interpretato la scrittura letteraria come professione: il suo mestiere, l’artigianato dei suoi giorni terreni, è stato il giornalismo, il lavoro di redazione, la tecnica e la cultura necessaria ogni giorno a produrre un giornale. Era il suo talento riconosciuto.

E invece cosa l’ha colpita maggiormente del Bilenchi narratore? Quali aspetti lo rendono un autore ancora attuale?

Ho amato i due racconti La siccità e La miseria. Nitidi, scolpiti, perfetti, eppure carichi di risonanze, di echi, di effetti ancora non sedati di un tempo di dolore e di malaugurio. Se mettiamo l’orecchio in quella prosa, sarà come accostare una conchiglia: si sente il rumore del tempo. Con una misura di esecuzione, una geometria di proporzioni, una pulizia magistrali. Ritengo che siano i suoi capolavori e che andrebbero letti come esempio di scrittura, oltre che come documenti storici per la loro impalpabile, quasi immateriale, funzione di testimonianza.

Tanto nel Conservatorio di Santa Teresa quanto negli altri racconti di Bilenchi dominano l’infanzia e l’adolescenza, immerse in una natura quasi mitica… Cosa rappresentano, per lo scrittore, queste prime fasi della crescita umana? E come vengono trasmesse da un punto di vista stilistico?

Infanzia e adolescenza sono per Bilenchi nodi decisivi – e mi verrebbe da dire anche nodi scorsoi –nell’avventura della formazione umana e del suo esito, mai scontato. Direi che sono luoghi del tempo ad alta connotazione di senso, e ad alto rischio: tutta la vita, anche quella che sarà, è come contenuta in quel collo di bottiglia del tempo di pochi, pochissimi anni. E basta un gesto, una parola, un oltraggio, una ferita, per segnare l’essere per sempre. Vi scorgo elementi di un determinismo che ha qualcosa di cupo e misterioso, e noto qui una discrepanza fra lo scrittore di anime adolescenti e lo scrittore e il memorialista politico. Per rispondere alla seconda sua domanda, direi che nei racconti d’infanzia e adolescenza lo scrittore è come criptato, mentre come memorialista lo si può leggere in chiaro.

Negli ultimi anni di vita, Bilenchi è passato dalla narrativa alla memorialistica: al centro dei suoi ricordi, la Firenze degli anni Trenta e gli amici di un tempo. Qual è stato il ruolo di un amico come Elio Vittorini nella formazione dello scrittore?

Insieme a Rosai, Vittorini è stato l’amico del cuore, e del cuore più profondo. Le pagine su Vittorini, se non le più belle, sono le più cariche del pathos schietto e raro della tenerezza virile. Due momenti restano nel lettore: il primo incontro tra i due all’angolo fra piazza Duomo e via Martelli, nella Firenze del 1930, e la lunga agonia di Elio, che Bilenchi vive anche dentro di sé, come un’atroce gravidanza. Poi, quando Vittorini muore, Bilenchi lo sogna, ed è un sogno che riesce a spremere lacrime anche al lettore più arido…

Per concludere, una domanda più personale. Se in occasione del centenario della nascita di Bilenchi avesse potuto ripubblicare una sua opera, quale avrebbe scelto?

Avrei scelto Amici, uno splendido affresco di memorie, di ricordi e di istantanee sul tempo e sugli uomini. Ma poi Rizzoli ha deciso di ristampare il volume delleOpere complete, curato da Benedetta Centovalli, Cristina Nesi e Massimo Depaoli: e allora le dico che è questa, l’opera completa, la mia preferita.

L'Occidentale