22 gennaio 2010

Quella dell'inviato Mitchell in Medio Oriente è una missione impossibile

A un anno esatto dall’insediamento di Barack Obama, George Mitchell torna in Medio Oriente con un obiettivo preciso: riportare attorno a un tavolo israeliani e palestinesi. L’inviato del presidente – che tra martedì e mercoledì ha visitato anche Libano e Siria – ha incontrato ieri il ministro della Difesa israeliano, Barak, e il leader dell’Anp, Abu Mazen, mentre oggi è previsto un incontro con il premier dello Stato ebraico, Netanyahu. La missione di Mitchell, va da sé, è molto complicata: israeliani e palestinesi, infatti, si dividono perfino sulle condizioni preliminari per riaprire un dialogo in vista della fondazione di un futuro Stato palestinese.

Ieri mattina, a Tel Aviv, Mitchell e Barak hanno parlato di sicurezza e questioni diplomatiche. Nello specifico, l’inviato di Obama avrebbe discusso con Barak una rosa di possibili concessioni perché l’Anp accetti di tornare al tavolo dei negoziati. Di fronte a Netanyahu, poi, Mitchell si farà portavoce della più importante condizione posta dai palestinesi: il blocco totale delle costruzioni di nuovi insediamenti – tanto in Cisgiordania quanto a Gerusalemme Est – per un periodo compreso tra i tre e i sei mesi. Altri temi all’ordine del giorno sono l’eventuale rimozione di alcuni posti di blocco, l’apertura dei valichi per la Striscia di Gaza e la riapertura della Orient House (sede dell’Olp negli anni Ottanta e Novanta) a Gerusalemme Est.

Certo è che Mitchell dovrà mettere in campo tutte le proprie abilità diplomatiche, perché oggi le posizioni di Netanyahu e Abbas appaiono agli antipodi. Mercoledì sera, mentre l’inviato di Obama lasciava Beirut e Damasco, il premier israeliano ha auspicato che il futuro Stato palestinese ospiti anche un contingente militare israeliano: secondo Netanyahu, vista l’esperienza di Hamas ed Hezbollah, si tratterebbe di una misura necessaria per contrastare la proliferazione delle armi e garantire la sicurezza dello Stato ebraico. L’Anp, chiaramente, non ha gradito: secondo il capo negoziatore Erekat, la proposta è “del tutto inaccettabile” e Israele, ancora una volta, “preferisce ordinare piuttosto che negoziare”.

A far scalpore nella regione, oltre alle dichiarazioni di Netanyahu, è in questi giorni anche una notizia lanciata dall’Associated Press. Secondo un funzionario palestinese citato dall’agenzia, infatti, Abbas potrebbe lasciare all’amministrazione americana il compito di trattare i confini dello Stato a nome dei palestinesi; l’Anp, continua la fonte, accetterebbe di lasciare ad Israele il 3% dei territori che rivendica, insieme ad alcune colonie in Cisgiordania. L’idea di Abu Mazen sarebbe stata comunicata ad alcuni funzionari egiziani, i quali l’avrebbero poi inoltrata a Washington: in questo quadro, l’incontro tra Abbas e l’inviato statunitense Mitchell sarebbe l’occasione per approfondire il tema.

Ciò emerge chiaramente dalla missione diplomatica di Mitchell è l’approccio regionale dell’amministrazione Obama, convinta che non sia possibile risolvere l’annosa questione israelo-palestinese senza la collaborazione di importanti attori come Egitto e Arabia Saudita, Libano e Siria. E proprio Beirut e Damasco sono le città visitate dall’inviato Usa prima di atterrare a Tel Aviv: secondo Mitchell, che ha incontrato il presidente Suleiman e lo speaker del parlamento Berri, il Libano è “un paese fondamentale per la pace e la stabilità in Medio Oriente”. Nelle stesse ore, però, il quotidiano francese “Le Monde” ha pubblicato un’intervista al premier Hariri, il quale ha detto di temere un nuovo attacco militare israeliano.

Più significativo è stato l’incontro tra Mitchell e Assad. Dalla Siria, l’inviato di Obama ha rilanciato il progetto di pace dell’amministrazione americana: “Il presidente e il segretario Clinton sono impegnati per un piano di pace globale in Medio Oriente”, ha spiegato Mitchell, e questo progetto includerebbe “la pace tra Israele e i palestinesi, tra Israele e la Siria, tra Israele e il Libano”. Senza una pace generalizzata, insomma, non ci sarà alcun accordo locale, in quanto Damasco e Beirut (attraverso Hamas ed Hezbollah) continuerebbero a destabilizzare l’equilibrio israelo-palestinese. In teoria, il ragionamento fila; in pratica, negli ultimi dodici mesi, in Medio Oriente non si sono registrati progressi di alcun tipo.

L'Occidentale