08 marzo 2010

Dopo il voto l'Iraq chiede soltanto più normalità e sicurezza

In Iraq il terrorismo si è fatto sentire: le elezioni sono state accompagnate da esplosioni in diverse città, e il bilancio parla di almeno quaranta morti e cento feriti. Tutto sommato, però, ha ragione il premier al-Maliki quando spiega che il terrorismo “non indebolirà il morale degli iracheni”: dopo lo spavento iniziale – e spronati dagli appelli dei leader politici – i cittadini si sono recati ai seggi. Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera della Ue, ha parlato di “affluenza significativa”, ulteriore prova dell’impegno del popolo “per un Iraq democratico”. Il voto, insomma, ha vinto: i seggi hanno chiuso i battenti alle 17.00 ora italiana, e subito è iniziato il conteggio delle schede. Per avere dati definitivi, assicurano gli inviati dall’Iraq, passeranno giorni, e a quel punto partirà una lunga trattativa per la formazione di un nuovo governo.

In pole position per la guida del prossimo esecutivo sono il premier uscente, al-Maliki, e l’ex premier Allawi. Se fino a gennaio al-Maliki era visto da tutti come grande favorito, nelle ultime settimane – assicurano da Baghdad – anche le quotazioni di Allawi si sarebbero impennate. L’unica certezza, comunque, è che i negoziati politici dureranno a lungo: a scanso di equivoci, al-Maliki ha invitato tutti i candidati ad accettare i risultati senza fomentare violenze, in quanto “chi vince oggi potrebbe perdere domani, e viceversa”. Allawi, però, ha già messo in guardia da possibili brogli. Quel che è certo è che il voto di ieri ha chiuso uno dei processi elettorali più combattuti in tutto il Medio Oriente: Ammar al-Hakim, leader del principale partito sciita, ha sottolineato come domenica sia stato “il giorno in cui gli iracheni hanno parlato, mentre molti altri sono rimasti in silenzio”.

In attesa di dati certi, cerchiamo di capire meglio come e perchè si è votato. Gli elettori iracheni sono stati chiamati alle urne per eleggere nuovi parlamentari, il cui mandato dura 4 anni: saranno poi gli eletti in parlamento, e non direttamente i cittadini, a designare il primo ministro. Una legge approvata lo scorso dicembre ha portato il numero dei seggi da 275 a 325, nel tentativo di dare una miglior rappresentazione della sfaccettata popolazione irachena. Secondo la normativa vigente, 8 seggi sono riservati a gruppi di minoranza – e in particolare 5 ai cristiani – mentre almeno il 25% del parlamento (82 seggi) dovrebbe essere occupato dalle donne. Per quanto riguarda il sistema elettorale, i votanti si sono trovati di fronte a diverse coalizioni e – grazie al sistema “lista aperta” – hanno potuto esprimere preferenze: i candidati sono 6.200, sparsi in oltre 300 liste.

Molto interessante – e indicativo della complessità sociale irachena – è il quadro delle coalizioni scese in campo. Il primo ministro Nouri al-Maliki – al quale fa capo la formazione sciita Dawa – ha messo in piedi la “State of Law”, un insieme di partiti di diversa estrazione legati principalmente al nome e alla politica del premier. Maliki ha sfidato l’Iraqi National Alliance – la sua vecchia coalizione – in cui figurano svariate organizzazioni sciite tra cui l’Islamic Supreme Council of Iraq. E se l’Iraqi National Movement (di cui fa parte la lista dell’ex premier Iyad Allawi) e l’Unity Alliance of Iraq sono due coalizioni basate più sulla reputazione dei singoli che sulla forza dei partiti, l’Iraqi Accord raggruppa invece la maggior parte delle formazioni sunnite. Da segnalare, infine, l’unione dei principali partiti curdi e il fatto che le violenze non hanno intimidito i cristiani: sono stati in 48 a presentarsi in 6 diverse liste, correndo per i 5 seggi garantiti dalla Costituzione.

Se ogni valutazione politica e sociale è prematura, è già possibile tracciare il bilancio di una campagna elettorale che ha mostrato luci e ombre. Le ombre erano attese: nei giorni passati, diversi attentati hanno colpito il paese per ricordare a tutti che – oltre le urne e la giovane democrazia – il terrorismo non è ancora stato sconfitto. Ma non è tutto. Sul piano della competizione elettorale, i problemi hanno riguardato prima la squalifica di oltre 500 candidati legati al vecchio partito Baath di Saddam Hussein, poi le accuse di corruzione contro al-Maliki – il quale avrebbe regalato migliaia di fucili ai capi tribù per assicurarsi i voti – e molti altri candidati, che hanno offerto agli elettori olio e riso in diverse province del paese. Pratiche molto diffuse, che il premier ha giustificato così: “Onestamente, vorrei davvero poter donare una pistola e un fucile a tutti coloro che stanno accanto al governo contro le bande criminali per esprimere il nostro apprezzamento”.

Rispetto al passato, però, diversi fattori lasciano intuire anche una rinascita del paese. Nelle scorse settimane, gli elettori iracheni sono stati bombardati dalla satira: fumetti, manifesti, ma soprattutto – racconta il “New York Times” – email e sms al vetriolo. La celebre tv Al Arabiya, di base a Dubai, ha poi trasmesso numerosi dibattiti tra i candidati minori: moltissimi i temi analizzati, dall’economia alla storia (antica e recente) del paese, mentre i leader di spicco delle diverse coalizioni hanno concesso interviste a svariati giornalisti. Il servizio pubblico svolto da Al Arabiya ha convinto tutti, incassando anche l’apprezzamento del presidente egiziano Hosni Mubarak. Come in molti paesi occidentali – Italia in primis – il lavoro parlamentare è diventato poi particolarmente appetibile sul piano economico: gli eletti, infatti, riceveranno circa 25.500 $ al mese, di cui 8.450 $ per sé e il resto per pagare uno staff di collaboratori.

Ma al di là dei risultati finali, premier e governo dovranno lavorare per esaudire le principali richieste degli elettori: normalità e sicurezza. Il “New York Times” – che tramite l’ufficio di Bagdad ha coperto in modo eccellente il processo elettorale – ha intervistato molti cittadini: al di là dei diversi orientamenti di voto, le speranze per il futuro appaiono comuni a tutti. E sulla tranquillità scommettono anche gli iracheni espatriati in Giordania a causa delle violenze passate: il sogno, per tutti, è quello di poter tornare a vivere in un Paese democratico e sicuro. E anche chi, come il collaboratore del “New York Times” Riyahd Mohammed, non ha votato alle ultime elezioni provinciali, questa volta ha cambiato idea: “Agli iracheni è stato detto che il loro voto vale oro – spiega Mohammed – e io, nonostante tutte le riserve verso i leader e il caos del processo politico, ci credo davvero”.

L'Occidentale