18 agosto 2010

Netanyahu, fare il premier di Israele è il mestiere più difficile del mondo

Fare il primo ministro, in Israele, è il mestiere più difficile del mondo, un drammatico gioco d’equilibrio fra interessi molteplici e contrapposti. Non è un lavoro per tutti. Ecco perché - a differenza dei politici europei e americani, formatisi nelle più prestigiose università occidentali - spesso i capi di governo dello Stato ebraico hanno alle spalle una vita molto più dura: Ariel Sharon ha cominciato a combattere giovanissimo, e ha scalato la gerarchia militare diventando generale all’età di 28 anni; Ehud Barak, l’attuale ministro della Difesa, è il soldato più decorato della storia israeliana; Shimon Peres, nel 1947, è stato scelto da Ben Gurion come responsabile del personale e dell’acquisto delle armi, e l’anno seguente era già capo della marina; Yitzhak Rabin ha comandato la brigata “Harel”, fondamentale nella conquista di Gerusalemme nel 1948; Begin, nella Seconda guerra mondiale, è stato deportato in un gulag staliniano. Sono tutti uomini forti e decorati, con le spalle abbastanza larghe da fronteggiare guerre, rivolte e crisi diplomatiche più o meno profonde.

Benjamin Netanyahu - primo ministro dal 1996 al 1999, rieletto lo scorso anno - non è da meno. Prima di studiare Architettura e Management, prima di intraprendere la carriera diplomatica presso l’ambasciata israeliana negli Stati Uniti, Bibi ha trascorso cinque anni nella “Sayeret Matkal”, unità speciale dell’esercito impegnata nell’antiterrorismo e nella raccolta di informazioni sensibili. La stessa forza in cui Yonatan, fratello di Benjamin, perderà la vita nel 1976, nel corso dell’Operazione Thunderbolt volta a portare in salvo i passeggeri di un volo Air France dirottato in Uganda dai terroristi dell’Olp. Una scuola di formazione molto dura che lancia Netanyahu nel mondo della politica, dal ministero degli Esteri alla poltrona di primo ministro, dopo essere stato a capo dell’opposizione in qualità di leader del Likud. Al pari dei suoi predecessori, Bibi vanta un curriculum di tutto rispetto: ed è per questo che gli israeliani lo hanno richiamato a capo del governo, dopo anni molto difficili segnati dalla malattia di Ariel Sharon e dalla burrascosa gestione Olmert.

Che governare non sarebbe stato facile, però, è apparso chiaro sin dalla chiusura dei seggi: a dispetto dei sondaggi, alle elezioni del febbraio 2009 il Likud prende un seggio in meno di Kadima, il partito centrista fondato da Ariel Sharon. E solo quando Tzipi Livni non riesce a mettere insieme una maggioranza, il presidente Peres designa primo ministro Netanyahu, il quale si vede costretto a mettere insieme un governo che ingloba tanto i laburisti di Ehud Barak - che resta ministro della Difesa - quanto Avigdor Lieberman, leader del partito della destra nazionalista Yisrael Beiteinu, fortemente contrario a concessioni politiche e territoriali nel quadro delle trattative con i palestinesi. Il 31 marzo, il governo ottiene la fiducia alla Knesset: gran parte degli analisti scommette su una rapida caduta dell’esecutivo, in quanto Netanyahu - pressato dalla comunità internazionale - non potrà che scontentare lo “scomodo alleato” di ultradestra. E così la pensa anche Tzipi Livni, che nel corso dei mesi ha più volte rifiutato l’ipotesi di una grande coalizione con il Likud.

A dispetto delle previsioni, però, Netanyahu resta in sella. Per capire come si è mosso negli ultimi dodici mesi, “L’Occidentale” ha chiesto un parere a Isi Leibler, già leader della comunità ebraica australiana e oggi studioso, scrittore ed editorialista del quotidiano “Jerusalem Post”. “Nel primo anno di governo, Netanyahu ha sorpreso molti spostando abilmente il partito su una posizione centrista, motivo per cui ha ottenuto un largo sostegno in politica interna”, spiega Leibler: “Paradossalmente, l’unica vera differenza tra il Likud e Kadima, principale partito d’opposizione, riguarda più le personalità dei singoli che la politica in sé. Se la Livni fosse diventata primo ministro, fatta eccezione per piccole sfumature, starebbe adottando la stessa strategia di Netanyahu”. La politica, però, non la decide solo il primo ministro, e Leibler ricorda che Bibi “deve vedersela con l’enorme pressione esercitata da parte dell’amministrazione Obama, che preme perché faccia altre concessioni unilaterali, e questo creerà tensioni all’interno del governo”. Concessioni che certo Tzipi Livni non ostacolerebbe, ma fare i conti con Yisrael Beiteinu è molto più difficile.

Il rapporto tra Washington e Gerusalemme è il tratto fondamentale per comprendere il presente (e il futuro) dell’attuale governo israeliano. Nel corso dell’ultimo incontro con Barack Obama, che è servito a risollevare i rapporti tra i due alleati, Netanyahu si è detto pronto ad assumere i rischi della pace; poche ore prima, però, Lieberman ha escluso categoricamente la possibilità di estendere il blocco degli insediamenti che scade a fine settembre, un tema molto caro ai ritrovati amici americani. A dividere Obama e Netanyahu, comunque, non è solo Lieberman, ma - sul piano generale - una visione diversa del Medio Oriente. Il 4 giugno 2009, al Cairo, il presidente americano ha parlato al mondo musulmano ribadendo la visione di due popoli per due Stati, e ricordando che “gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano accordi precedenti e minano gli sforzi per giungere alla pace”. Bene, dieci giorni dopo - dall’Università Bar Ilan - Netanyahu parla di “crescita naturale delle colonie esistenti”, e propone “uno Stato palestinese demilitarizzato” con Gerusalemme capitale indivisibile d’Israele.

Le posizioni di Netanyahu hanno largo credito in Israele. Poco dopo il discorso di Bar Ilan, il quotidiano progressista “Haaretz” ha tastato il polso dell’opinione pubblica: l’approvazione nei confronti del premier era salita al 49%, contro il 28% registrato prima della lectio magistralis. Larga parte degli israeliani, inoltre, si è sempre mostrata scettica nei confronti di Obama, e questo sentimento si è registrato anche presso parte degli ebrei americani e degli elettori del partito repubblicano, preoccupati dalle posizioni del presidente nei confronti dello Stato ebraico. Ecco perché alcuni analisti, in occasione del recente incontro tra Obama e Netanyahu, hanno parlato di “successo” del premier israeliano: forse in vista delle elezioni di mid-term, il presidente americano ha evidentemente smorzato i toni nei confronti dell’alleato mediorientale. Gran parte degli americani, del resto, continua a sostenere Israele: “La pubblica opinione e il sostegno del Congresso non sono mai stati così forti”, osserva Leibler, anche se “nel sistema americano è la Casa Bianca a determinare ampiamente la politica estera”. Almeno sul breve termine, per Netanyahu la calma ritrovata con Washington è certo un ottimo risultato.

Intervistato da Fox News nel corso del suo viaggio americano, Netanyahu ha ammesso che difficilmente si giungerà ad un accordo con i palestinesi prima del 2012: “Ho bisogno di un partner dall’altra parte. Non posso fare il trapezista che vuole raggiungere il compagno se non c’è nessuno disposto a prendermi la mano”. Il riferimento, ovviamente, è ad Abu Mazen: Netanyahu preme perché si torni presto a colloqui diretti - “Gerusalemme e Ramallah distano solo 15 minuti di strada”, ha osservato il premier con Obama - e Washington sembra pensarla ora allo stesso modo. “La vediamo diversamente dai palestinesi su molte questioni. Vogliamo una capitale unita. Loro la pensano diversamente. Questo è uno dei temi che dovranno essere discussi. Ma ciò che importa è arrivare a discuterlo” spiega Netanyahu. “Perché stiamo ancora perdendo tempo? Muoviamoci”. Va da sé che proprio una ripresa dei colloqui con i palestinesi - che Obama auspica prima che scada il blocco degli insediamenti - aprirebbe a uno scontro di vedute all’interno del governo israeliano, con Barak e Lieberman su opposte barricate.

In questi mesi, però, i rapporti di governo, i negoziati con i palestinesi e l’alleanza con Washington non sono stati gli unici problemi di Bibi: scrivere d’Israele, infatti, significa parlare di un paese su cui aleggia perennemente lo spettro di nuovi conflitti. Giulio Meotti, giornalista del Foglio, ha recentemente firmato un bel reportage in tre puntate dai confini dello Stato ebraico: l’immagine che trasmette è quella di una popolazione che aspetta rassegnata il prossimo conflitto, che sia con Hamas, con Hezbollah o con l’Iran. Compito di un premier israeliano è quello di garantire la sicurezza della nazione, e di prepararsi a ogni evenienza: da quando è stato eletto, Netanyahu non ha mai smesso di mettere in guardia da Ahmadinejad e da Hezbollah, che dal 2006 ad oggi si sarebbe riarmato a dispetto della forze Unifil schierate sul territorio. Giusto un anno fa, il premier aveva messo in chiaro la situazione: “Una volta che Hezbollah entra a far parte del governo, il governo sovrano del Libano sarà ritenuto responsabile di ogni attacco proveniente dal suo territorio”. Irrisolta resta poi la questione Shalit: Gerusalemme è disposta a trattare con Hamas il rilascio di centinaia di prigionieri, ma sull’identità di chi dovrà essere liberato l’accordo resta molto lontano. “Siamo pronti a pagare un prezzo per Shalit - ha spiegato Netanyahu - ma non qualsiasi prezzo. Questa è la verità”.

Isi Leibler, che lo conosce, ci spiega che Netanyahu “è una persona eccezionalmente ben educata. Ha una visione interessante del futuro, e parlando con lui ci si impressiona per la sua intelligenza e per la capacità di trattare questioni complesse”. In passato, però, “la sua debolezza è stata quella di perdere smalto quando era sotto pressione. Su questo il giudizio resta sospeso, e alla fine rappresenterà la sua sfida più grande”. Le pressioni sono tante, dalla politica interna ai rapporti con la comunità internazionale. Una soluzione, per i mesi futuri, potrebbe essere quella di includere Kadima nel governo, ma Tzipi Livni ha le idee molto chiare a proposito: “Bibi e Barak stanno distruggendo il paese. Israele ha un problema non perché il mondo intero sia contro di noi, ma a causa delle politiche del governo. La soluzione non è salvare il suo governo, ma cambiarlo e salvare il paese”. Quando i colloqui con i palestinesi entreranno davvero nel vivo, quando si tratterà di chiudere il negoziato per la liberazione di Shalit, quando Washington tornerà nuovamente a premere per la pace vedremo allora se Netanyahu saprà vincere le pressioni tenendo insieme il mosaico del suo governo. Vincendo, così, “la sua sfida più grande”.

L'Occidentale