Chissà se il fantasma di Mordecai Richler si è fatto un giro alla Mostra del cinema di Venezia. L’occasione era ghiotta, perché il suo Barney Panofsky - che ha vissuto per oltre dieci anni tra le pagine di un romanzo di culto - è sbarcato in pompa magna sul grande schermo. Le attese (e i timori) da parte dei fan sono alle stelle, ma le prime impressioni dal Lido sono molto confortanti. Christian Rocca, inviato de “Il Sole 24 Ore”, è entusiasta - “Possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il film tratto dalla Versione di Barney è bello. Soprattutto è fedele al romanzo. Manca qualche dettaglio, com’era ovvio, ma c'è la sua essenza, il suo spirito, la sua grandezza” - mentre Alberto Anile di “TV Sorrisi e Canzoni” plaude agli attori: Hoffman “porta buonumore e un pizzico di follia”, mentre Giamatti “consacra in Barney una carriera di outsider buffi e imprevedibili”.
Pieni voti anche da parte di Mariarosa Mancuso: “Un sublime Paul Giamatti - scrive sul “Foglio” - e un prezioso lavoro di sceneggiatura (da studiare nelle scuole, oltre che da godere sullo schermo)” rendono il film di Richard J. Lewis “all’altezza dei nostri più sfacciati sogni panofskiani”. Per Paolo Mereghetti il film è buono, anche se non indimenticabile, mentre Maurizio Caverzan scrive sul “Giornale” di un lungometraggio “pieno di vita, con dialoghi fulminanti, situazioni paradossali, case vissute e piene di atmosfera e tanta buona musica”. E a chi accusa il film di aver annacquato l’irriverenza del romanzo, risponde in conferenza stampa Rosamund Pike (che interpreta Miriam, terza moglie di Barney): “Tutti amano l’umorismo scorretto del libro, ma c’è anche una parte drammatica. E poi l’umorismo si esprime nel film attraverso le azioni, più che le parole”.
Positivi anche i primi giudizi americani. Su “The Hollywood Reporter”, Michael Rechtshaffen osserva come il film di Lewis sia “molto divertente”, probabilmente “la miglior trasposizione cinematografica di un’opera di Richler da molti anni a questa parte”. Lodi, anche in questo caso, per Paul Giamatti, forte di “un’ostinata vulnerabilità, indispensabile per servire al meglio l’intensità del film”. Su “Screen Daily”, Lee Marshall - che ha ravvisato alcune analogie strutturali tra “Barney’s Version” e “Benjamin Button” - plaude invece alla scelta degli sceneggiatori “di soffermarsi in particolare sulla grande passione di Barney per Miriam”. È questo amore, insieme alla “magistrale” interpretazione di Giamatti (capace di personificare al meglio “il declino di un personaggio che fa i conti con l’Alzheimer”), a rendere il film emozionante, al di là di alcuni difetti.
Tutto bene, insomma, per il signor Panofsky. Anche perché una fortunata coincidenza ha voluto che il film esordisse a Venezia mentre in Italia festeggiamo il decimo anniversario de “La versione di Barney”, tradotta dal bravissimo Matteo Codignola e dato alle stampe da Adelphi nel 2000. Delle vicissitudini che hanno reso il romanzo un fenomeno di culto sono state scritte fin troppe pagine: basti ricordare qui la “scoperta” dell’opera da parte di Mariarosa Mancuso e Antonio D’Orrico e la fantastica - a tratti folle - campagna promossa dal “Foglio” di Ferrara nel 2001. A dieci anni di distanza, le memorie di Barney campeggiano nelle librerie migliaia di italiani, e la speranza - visto il potere del cinema in un paese che legge troppo poco - è che il film di Lewis possa avvicinare molti altri lettori al genio di Mordecai Richler, e alla sua sorprendente produzione letteraria.
Da dove cominciare? Per scoprire l’autore, “La versione di Barney” è senza dubbio un ottimo punto di partenza. Il romanzo che ha consacrato Richler in Canada e negli Stati Uniti è però “L’apprendistato di Duddy Kravitz” (riedito pochi giorni fa da Adelphi): pubblicato nel 1959, il libro celebra la sregolata formazione di Duddy e la sua emancipazione dal ghetto di Montreal, fino al raggiungimento dell’agognato successo. La variegata umanità del ghetto è una costante nell’opera dell’autore: lì Mordecai nasce e cresce, fino a quando - nei primi anni cinquanta - abbandona temporaneamente Montreal per l’Europa (Francia, Spagna, Inghilterra). Le sue radici, però, resteranno sempre ancorate in quelle vie del Québec, e la gustosa raccolta di bozzetti intitolata “Le meraviglie di St. Urbain Street” (1969, tradotto da Adelphi nel 2008) ne è la dimostrazione lampante.
Più impegnativo è il romanzo che precede “La versione di Barney”. Pubblicato nel 1989, “Solomon Gursky è stato qui” (Adelphi, 2003) dilata in quasi seicento pagine la vita, la morte e i miracoli della famiglia Gursky, un’epopea lunga due secoli raccontata dallo scrittore - alcolizzato e ossessionato - Moses Berger. Si tratta di un romanzo complesso, pieno di salti spazio-temporali, scritto - e questo dimostra la versatilità di Richler - dallo stesso autore di tre libri per l’infanzia che hanno come protagonista un bambino di cinque anni, Jacob due-due, costretto a ripetersi perché la prima volta nessuno lo ascolta. Dai tre racconti, tradotti in italiano dalla casa editrice di Roberto Calasso, è stata tratta una serie tv per ragazzi trasmessa in Canada (in inglese e in francese) e negli Stati Uniti.
Non dimentichiamo che l’inventore di Barney Panofsky - un personaggio su cui non ci dilunghiamo troppo, vista la quantità di articoli che invadono (e hanno invaso) i giornali - è anche un intelligente saggista. Mordecai Richler - scrittore “sulla pagina spesso puntuto e sarcastico”, ha osservato Matteo Codignola, “ma nella vita quasi sempre riservato e gentilissimo” - era un intellettuale acuto, partecipe delle contraddizioni del proprio tempo. Un assaggio dei suoi interventi “militanti” è contenuta nella raccolta “Un mondo di cospiratori” (Adelphi, 2007), un libretto che distilla gocce d’ironia, irriverenza e - soprattutto - intelligenza. Un posto a sé occupa poi “Il mio biliardo” (Adelphi, 2002), elegia di un gioco (“troppo serio per lasciarlo ai cronisti sportivi”) e di una passione che accomuna Paul Newman e la Regina Madre d’Inghilterra. Oltre, ovviamente, a Richler.
A tutti gli appassionati di Israele consigliamo infine la lettura di “Quest’anno a Gerusalemme” (Adelphi, 2002). Pubblicato originariamente nel 1994, il libro raccoglie le riflessioni dell’autore sull’ebraismo, sul Medio Oriente, sul passato e il futuro dello Stato ebraico (visitato personalmente nel 1962 e nel 1993, in vista del libro). Va da sé che non parliamo di un saggio di politica internazionale, ma di un’opera in cui il creatore di Barney Panofsky fa i conti con l’essere ebrei sul finire del XX secolo: né più né meno di ciò che Richler ha fatto in ogni suo romanzo... In attesa che Adelphi completi la traduzione delle opere richleriane, insomma, per i nuovi potenziali lettori non c’è che l’imbarazzo della scelta. Nella speranza che la “Barney’s Version” di Richard J. Lewis, dopo l’esordio veneziano, colpisca dritto al cuore del grande pubblico.
L'Occidentale