26 ottobre 2010

Dopo tanto sangue l'Iraq democratico dovrebbe salvare Tareq Aziz

L’Alta Corte Penale di Baghdad ha condannato a morte Tareq Aziz, ex-vice premier ed esponente di spicco del regime di Saddam Hussein, “per il ruolo da lui svolto nell’eliminazione dei partiti religiosi”. Per lunghi anni, in Iraq, Aziz è stato il braccio destro di Saddam: i due, giovani militanti del partito Ba’ath, si erano conosciuti negli anni cinquanta, e a quell’epoca risale il loro sodalizio politico. Aziz è uno dei volti più celebri dell’ex-regime iracheno, in quanto ha spesso sostenuto le ragioni di Saddam all’estero: unico esponente cristiano in un governo sunnita, celebre resta il suo incontro con Papa Giovanni Paolo II del 14 febbraio 2003, quando espresse (in extremis) al Santo Padre “la volontà del governo iracheno di collaborare con la comunità internazionale”.

Le cose andarono diversamente. Caduta Baghdad, il 24 aprile 2003 Aziz si consegna all’esercito americano e viene rinchiuso nel carcere di Camp Cropper dove rimane fino al gennaio 2010, per poi essere trasferito in ospedale in seguito a complicazioni cardiache. In sette anni di prigionia, Aziz è finito più volte dietro al banco degli imputati: nel marzo 2009 è stato condannato a 15 anni di reclusione per aver ordinato l’esecuzione di 42 commercianti sciiti; pochi mesi dopo, altra condanna: 7 anni per aver contribuito a pianificare la deportazione dei curdi dall’Iraq settentrionale. Ieri, l’ultima sentenza: Tareq Aziz verrà impiccato per aver preso parte alla sanguinosa repressione dei partiti sciiti filo-iraniani nel corso degli anni ottanta.

Per gli europei, figli di Beccaria, è difficile accettare la sentenza. Il realismo, però, ci impone di prendere atto che la cultura e le leggi irachene prevedono la pena di morte: secondo il rapporto annuale 2010 di Amnesty International, “almeno 366 persone sono state condannate a morte, portando il numero totale delle persone in attesa di esecuzione ad almeno 1100, comprese almeno 900 che avevano esaurito tutte le possibilità di ricorso”. Europei rappesentati dal nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si trova in visita di stato in Cina e dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che è insieme a lui, sostengono la richiesta dell'Alto Rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea Catherine Ashton e annunciano la richiesta all'Iraq di bloccare l'esecuzione.

Insomma, è difficile spiegare a un popolo che manda al patibolo per reati comuni - tra cui, spiega Amnesty, “coinvolgimento in attacchi armati, omicidio e altre azioni violente” - che proprio il braccio destro di Saddam Hussein potrebbe (e dovrebbe) essere salvato, per il bene superiore del paese.

Giovanni Di Stefano, legale di Aziz, ha presentato un’interpellanza urgente in quanto “la sentenza è stata emessa senza la salvaguardia degli interessi della giustizia e senza gli strumenti normalmente disponibili in appello”. Catherine Ashton, a nome dell’Unione Europea, ha ricordato che “la pena di morte non è accettabile”, e ha annunciato che chiederà al governo iracheno di sospendere la sentenza. Ma la di là degli appelli, l’Iraq dovrebbe graziare Tareq Aziz prima di tutto per sé stesso: dopo 25 anni di dittatura, dopo una guerra dolorosa, dopo anni di attentati sanguinosi, salvare il braccio destro di Saddam è un modo per dimostrare di essere diversi e migliori, per voltare pagina senza versare altro sangue. Perché quello che sporca le mani di Aziz è più che sufficiente.

L'Occidentale