31 luglio 2011

Il primo album degli Strokes compie dieci anni

New York City, fine anni novanta. Le aule della Dwight School, nell’Upper West Side di Manhattan, sono frequentate dai giovani più ricchi della città. Tra gli studenti ci sono anche Julian Casablancas, figlio del John fondatore dell’agenzia Elite Model Management, Nick Valensi, di padre tunisino e madre francese, e Fabrizio Moretti, nato a Rio de Janeiro e trasferitosi a New York all’età di cinque anni. I tre, amanti della musica rock, diventano amici e affittano una sala prove a Hell’s Kitchen: come bassista Julian assolda un suo vecchio amico, Nikolai Fraiture, conosciuto anni prima in città alla scuola francese. I quattro si danno da fare, ma i risultati restano poco incoraggianti. E il motivo è chiaro: serve un chitarrista, possibilmente bravo.

La soluzione, ancora una volta, emerge dal passato di Julian. Anni prima il figlio di Casablancas aveva frequentato l’istituto svizzero Le Rosey, e lì aveva conosciuto un altro figlio d’arte, Albert Hammond Jr: una bella mattina i due vecchi compagni si rincontrano a New York. Albert, originario di Los Angeles, si è appena trasferito nella Grande Mela per frequentare un corso all’università: cerca amici, un appartamento, ed è un bravo chitarrista. In pochi minuti Julian trova un coinquilino e il quinto elemento della band. Di lì a poco arriverà anche l’idea vincente: il gruppo, finalmente al completo, si chiamerà The Strokes.

Con Albert alla chitarra, la band inizia a produrre qualcosa di buono. Intanto i ragazzi trovano un ingaggio al club Mercury Lounge, dove conoscono Ryan Gentles: l’agente del locale diventa il manager del gruppo, e porta la band a registrare le prime tre canzoni – “The Modern Age”, “Last Nite” e “Barely Legal”. Il più è fatto, non resta che spedire il disco alle persone che contano: Gentles ha la giusta intuizione inviando il demo degli Strokes oltreoceano, negli uffici londinesi dell’etichetta indipendente Rough Trade. Quando il fondatore Geoff Travis ascolta le tre tracce, prende in mano il telefono e propone immediatamente un contratto al gruppo.

Londra, 2001. A gennaio esce “The Modern Age”, il primo EP degli Strokes, e vende 300mila copie; a giugno è la volta di “Hard To Explain”, che entra direttamente al sedicesimo posto della classifica inglese. Non male per un’indie band americana senza album alle spalle, che di lì a poco conquisterà le copertine delle più blasonate riviste musicali (Q, The Face, NME) e farà il tutto esaurito nel suo primo tour britannico.

I tempi sono maturi. Consacrati dal pubblico e dalla critica, il 27 agosto 2001 gli Strokes pubblicano “Is This It”, che entra direttamente al secondo posto della classifica inglese. Undici canzoni, quaranta minuti di musica per un disco giudicato dal New Musical Express il migliore del decennio 2000-2009 (la rivista Rolling Stone, in America, l’ha collocato invece al secondo posto): “Is This It è una storia di New York, una storia di Los Angeles, una storia di Londra. Una storia di tutti e di nessuno” scrive John Robinson, che dà un bel 10 all’album e lo paragona a “Definitely Maybe” degli Oasis per la sua capacità di cogliere lo spirito del tempo.

Ma se nel Regno Unito gli Strokes sono delle star, negli Stati Uniti le cose vanno un po’ diversamente. Il primo problema riguarda la copertina: quel sedere e quel guanto di velluto sono giudicati troppo allusivi, così la casa discografica – per evitare boicottaggi – sceglie di cambiare l’immagine del disco, optando per un’anonima composizione arabeggiante (che, spiega Wikipedia, altro non sarebbe che un “particolare della collisione di particelle effettuata nell’acceleratore del CERN”). La decisione comporta un certo ritardo nella pubblicazione dell’album, prevista non più per agosto ma per l’11 settembre 2001.

Tutto è pronto, non fosse che la mattina dell’11 settembre al-Qaeda dirotta due aerei di linea contro le torri gemelle, portando a compimento il più grave attentato terroristico a memoria d’uomo. A questo punto il problema è un altro: il disco contiene infatti una canzone, “New York City Cops”, in cui si dice che i poliziotti della Grande Mela non sono troppo svegli. Inaccettabile in quei giorni, bisogna rimandare la pubblicazione del disco a inizio ottobre quando “Is This It” esce (finalmente) anche negli Stati Uniti, con una copertina diversa dall’edizione europea e con un’altra canzone – “When It Started” – al posto di “New York City Cops”. Il successo è grande anche in patria, e i ragazzi vengono salutati come salvatori del rock.

Oggi, a dieci anni distanza, “Is This It” non ha perso la sua freschezza e la sua forza. Lo stesso, purtroppo, non si può dire della band, che ha pubblicato altri tre album senza mai raggiungere i picchi dell’esordio. Ma quelle undici canzoni resteranno comunque, perché – proprio come “Definitely Maybe” degli Oasis – hanno saputo cogliere lo spirito del tempo.

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