19 marzo 2012

L'altra faccia di Firenze

Paolo Stefanini, su Linkiesta, firma un pezzo abbastanza critico a proposito di Firenze e del suo sindaco Matteo Renzi (l'Obama italiano secondo la rista Time). L'autore intervista Mario Curìa, presidente e amministratore delegato della casa editrice Mandragora, che ha qualcosa di interessante da dire sulla città (per cui prova al tempo stesso amore pazzesco e odio profondo) e la sua amministrazione:
Quello che con le primarie, nel 2009, ha compiuto Matteo – un amico che ho sostenuto – è stato il suo vero big bang. Firenze era in coma profondo. Veniva dai peggiori dieci anni del dopoguerra. Lui ha fatto quello che dovrebbero fare di norma i politici: ha riacceso una speranza. Ha fatto riavvicinare alla politica quella borghesia produttiva da sempre schifata dai partiti e dalle loro logiche. E questo è il bicchiere mezzo pieno. Poi c’è quello mezzo vuoto. Ed è l’azione amministrativa. Il suo attivismo anche sfrenato, ma spesso un po’ scomposto, non organizzato… Non è nemmeno colpa sua… Se la pubblica amministrazione non funziona, se hai in mano un carrozzone inefficiente da cinquemila dipendenti come il Comune di Firenze, tutto è difficile. Hai voglia a girare lo sterzo, se il motore non parte, resti sempre nello stesso posto.
Curìa parla poi del lavoro, di come le aziende e gli imprenditori siano visti in Toscana. "Se hai fatto i soldi - dice - sei per forza un figlio di puttana. [...] Il problema, qui, è che siamo rimasti l'unico paese sovietico del mondo":
Non c’è una mentalità favorevole al fare impresa. Il sostrato cattocomunista porta a un’ostilità antropologica, prima ancora che politico-sindacale. Se hai fatto i soldi, sei per forza un figlio di puttana. Io a Renzi lo dico sempre, che un imprenditore come me, che produce ricchezza e non chiede contributi pubblici, dovrebbe difenderlo come un panda, una razza in via d’estinzione. Perché il problema qui è che siamo rimasti l’unico Paese sovietico del mondo. Anche gli imprenditori di destra, i miei colleghi in Confindustria, sono statalisti, e si aspettano aiuti dal pubblico, e alla fine non considerano se stessi e l’impresa privata con il giusto orgoglio. Io faccio lavorare mio figlio un mese all’anno in azienda. Lavori umili, come il magazziniere. Lo ritengo formativo. Vengo da una famiglia borghese del Sud e lì sarebbe stato impossibile. In Calabria il lavoro è considerato un disvalore, una condanna, una cosa da disgraziati che devono cacciarsi il pane. Dal 1973 a oggi, da quando sono arrivato a Firenze, mi sembra che la città si sia avvicinata più al Sud che al Nord. Allora era ancora vivo l’orgoglio per la reazione all’alluvione del '66. Per come si erano rimboccati le maniche. I bottegai ti dicevano che una settimana dopo avevano già riaperto i banchetti sui marciapiedi. Mica aspettavano l’aiuto dello Stato, ci mettevano del loro. Ora, non è più così. E allora quello che posso rimproverare a Matteo è di non fare abbastanza per l’unica infrastruttura che davvero manca a Firenze, l’infrastruttura culturale. Lavorare sulle scuole, far capire cos’è un’impresa e che il padrone non è un nemico, ma – come ripeto sempre io con una battuta – uno che ti tratta bene per sfruttarti meglio. Invece, qui, raramente il dipendente si sente sulla tua stessa barca.