Dopo l'iniziale concitazione mondiale, l'attenzione dei media sulla Birmania si è progressivamente affievolita. Ma giornali e televisioni hanno un'attenuante: da quando la repressione è stata sedata, con i monaci nelle prigioni o nuovamente rinchiusi nei monasteri, ben poche notizie di rilievo sono filtrate dalla Birmania. E alle Nazioni Unite, dove si gioca la partita delle sanzioni, continua lo stallo totale: la Cina, come ha recentemente ribadito, è contraria a qualsiasi misura punitiva contro il regime militare di Than Shwe.
Negli ultimi giorni, però, qualcosa è successo. Primo: spinta dalle raccomandazioni dell'inviato delle Nazioni Unite Gambari, la giunta ha incontrato la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi. Secondo: Gambari, giunto ormai al termine del suo tour asiatico, dovrebbe presto fare ritorno in Birmania. Terzo: dopo settimane di relativa calma, la polizia è tornata a circondare massicciamente i monasteri buddisti.
L'incontro tra Suu Kyi e l'emissario governativo Aung Kyi (incaricato da Than Shwe di tenere i rapporti con l'opposizione) è senza dubbio la notizia di maggiore rilievo. Questi i fatti: la donna, che il 24 ottobre ha "festeggiato" dodici anni d'arresti domiciliari, è stata prelevata mercoledì dalla sua casa e condotta nel centro di Rangoon. L'incontro con Aung Kyi, cominciato poco dopo mezzogiorno, è durato circa un'ora e un quarto: al termine del colloquio – sul quale, ancora una volta, nulla è trapelato –, il premio Nobel è stata riconsegnata alle stanze della sua casa. Suu Kyi non ha potuto rilasciare alcuna dichiarazione: unica testimonianza dell'incontro, un breve video mandato in onda dalla tv di Stato.
L'apertura da parte della giunta sembra essere una sorta di teatrino ben orchestrato: quando l'inviato delle Nazione Unite, Ibrahim Gambari, lasciò la Birmania a fine settembre, raccomandò a Than Shwe di parlare con Suu Kyi. L'incontro di mercoledì, dunque, rientra a pieno titolo nelle misure adottate dal governo per tenere buona la comunità internazionale. Ma sono davvero in pochi ad illudersi sulla reale benevolenza del regime: l'ambasciatore americano all’Onu Khalilzad, infatti, ha ricordato a tutti che Suu Kyi "deve essere messa in condizione di potersi consultare e incontrare con i membri del suo partito", oltre a intrattenere frequenti colloqui con il governo sull’auspicabile transizione democratica. "Queste condizioni qui non ci sono", ha chiuso l'ambasciatore. Il giorno prima dell'incontro, inoltre, l'inviato della Farnesina Ugo Papi aveva cercato di avvicinarsi alla casa della donna: a fermarlo, filo spinato e imponente spiegamento di forze militari.
Il regime birmano, comunque, sa bene di dover concedere qualcosa: perlomeno in apparenza, come ha fatto con la leader dell'opposizione. I movimenti del governo continuano ad essere monitorati dall'Onu: stando alle ultime notizie, Gambari dovrebbe fare ritorno nel paese nella prima settimana di novembre. Dopo di lui, sbarcherà a Rangoon anche Sergio Pinheiro, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ma da quando ha lasciato la Birmania, dopo la sua prima visita, l'ex ministro degli Esteri nigeriano non è certo stato con le mani in mano: Gambari si trova tuttora in giro per i paesi asiatici, a caccia di sostegno per misure più efficaci contro la dittatura birmana.
Il tour asiatico di Gambari ha preso il via dalla Malaysia: dopo Kuala Lumpur, il viaggio prevedeva tappe in Thailandia, Indonesia, India, Cina e Giappone. Tappa fondamentale era evidentemente quella di Pechino, dove giovedì l'inviato delle Nazioni Unite ha parlato personalmente con il viceministro degli Esteri Wang Yi. Yi ha assicurato a Gambari che "la Cina continuerà a dare il supporto necessario alla mediazione dell'Onu", auspicando che vertici militari e partiti d'opposizione possano giungere ad una soluzione pacifica "attraverso il dialogo". Parole al vento? Certo: nello stesso istante, ma in un'altra città (ad Harbin), i ministri degli Esteri di Cina, Russia e India hanno ribadito la ferma opposizione a qualsiasi tipo di sanzione contro il regime di Than Shwe. Il russo Lavrov, intervistato dal "China Daily", ha motivato la presa di posizione comune sottolineando che "le pressioni sul paese non faranno altro che aggravare la situazione e provocare una nuova crisi". Dunque, o si dialoga (ma il regime non ne ha la minima intenzione) o tutto resta come prima.
Unici paesi a continuare imperterriti sulla via delle sanzioni sono Stati Uniti e Australia. Il presidente americano, George W. Bush, ha annunciato la scorsa settimana un ulteriore inasprimento delle misure, richiamando poi all'ordine Cina e Russia. Sul fronte australiano, invece, la Reserve Bank of Australia (RBA) ha deciso mercoledì di imporre sanzioni fiscali contro 418 generali militari e le loro famiglie: ogni movimento monetario dovrà ora essere approvato dalla banca stessa.
Infine, la repressione. Dopo giorni di relativa calma, in molti hanno segnalato ieri un deciso incremento delle forze di polizia per le strade: il timore è che, terminata la quaresima buddista, i monaci decidano di riprendere la protesta. Un giornalista della Reuters, al quale è stato impedito di scattare fotografie, ha parlato di assembramenti militari intorno alle pagode di Sule e Shwedagon, epicentro delle proteste di agosto e settembre. Rotoli di filo spinato sono già pronti per chiudere eventualmente le strade. Ma accuse ben più inquietanti sono recentemente piovute sulla giunta. Se "Human Rights Watch" richiama l'attenzione sulle condizioni disperate in cui si trovano le minoranze etniche birmane e gli attivisti denunciano imperterriti gli arresti indiscriminati, l'Onu ha invece lanciato ufficialmente l'allarme fame: cinque milioni di persone non hanno abbastanza cibo per sopravvivere.
E mentre il governo arruola finti monaci che si dimostrino benevolenti nei confronti del governo e dei suoi omaggi, il quotidiano inglese "Independent" ha citato una fonte diplomatica britannica sotto anonimato secondo la quale la Birmania è ormai "terra di prigionia", con raid notturni, processi sommari e veri e propri "campi di nuova vita", molto simili ai "centri di rieducazione" istituiti da Pol Pot in Cambogia. Secondo il funzionario britannico, altre proteste sulla scia di quelle di settembre sono improbabili anche se la popolazione "è determinata a dare prova della sua resistenza".
Gli ultimi numeri della repressione, forniti da Tate Naing della Assistance Association of Political Prisoners , parlano di oltre 4000 arresti da parte della giunta (tra monaci, attivisti e persone comuni) da quando la repressione ha preso il via; almeno 700 persone sarebbero ancora dietro le sbarre. Secondo il governo birmano, invece, la maggior parte degli arrestati sarebbe già in libertà e solo 190 persone sarebbero ancora sotto custodia.
Negli ultimi giorni, però, qualcosa è successo. Primo: spinta dalle raccomandazioni dell'inviato delle Nazioni Unite Gambari, la giunta ha incontrato la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi. Secondo: Gambari, giunto ormai al termine del suo tour asiatico, dovrebbe presto fare ritorno in Birmania. Terzo: dopo settimane di relativa calma, la polizia è tornata a circondare massicciamente i monasteri buddisti.
L'incontro tra Suu Kyi e l'emissario governativo Aung Kyi (incaricato da Than Shwe di tenere i rapporti con l'opposizione) è senza dubbio la notizia di maggiore rilievo. Questi i fatti: la donna, che il 24 ottobre ha "festeggiato" dodici anni d'arresti domiciliari, è stata prelevata mercoledì dalla sua casa e condotta nel centro di Rangoon. L'incontro con Aung Kyi, cominciato poco dopo mezzogiorno, è durato circa un'ora e un quarto: al termine del colloquio – sul quale, ancora una volta, nulla è trapelato –, il premio Nobel è stata riconsegnata alle stanze della sua casa. Suu Kyi non ha potuto rilasciare alcuna dichiarazione: unica testimonianza dell'incontro, un breve video mandato in onda dalla tv di Stato.
L'apertura da parte della giunta sembra essere una sorta di teatrino ben orchestrato: quando l'inviato delle Nazione Unite, Ibrahim Gambari, lasciò la Birmania a fine settembre, raccomandò a Than Shwe di parlare con Suu Kyi. L'incontro di mercoledì, dunque, rientra a pieno titolo nelle misure adottate dal governo per tenere buona la comunità internazionale. Ma sono davvero in pochi ad illudersi sulla reale benevolenza del regime: l'ambasciatore americano all’Onu Khalilzad, infatti, ha ricordato a tutti che Suu Kyi "deve essere messa in condizione di potersi consultare e incontrare con i membri del suo partito", oltre a intrattenere frequenti colloqui con il governo sull’auspicabile transizione democratica. "Queste condizioni qui non ci sono", ha chiuso l'ambasciatore. Il giorno prima dell'incontro, inoltre, l'inviato della Farnesina Ugo Papi aveva cercato di avvicinarsi alla casa della donna: a fermarlo, filo spinato e imponente spiegamento di forze militari.
Il regime birmano, comunque, sa bene di dover concedere qualcosa: perlomeno in apparenza, come ha fatto con la leader dell'opposizione. I movimenti del governo continuano ad essere monitorati dall'Onu: stando alle ultime notizie, Gambari dovrebbe fare ritorno nel paese nella prima settimana di novembre. Dopo di lui, sbarcherà a Rangoon anche Sergio Pinheiro, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ma da quando ha lasciato la Birmania, dopo la sua prima visita, l'ex ministro degli Esteri nigeriano non è certo stato con le mani in mano: Gambari si trova tuttora in giro per i paesi asiatici, a caccia di sostegno per misure più efficaci contro la dittatura birmana.
Il tour asiatico di Gambari ha preso il via dalla Malaysia: dopo Kuala Lumpur, il viaggio prevedeva tappe in Thailandia, Indonesia, India, Cina e Giappone. Tappa fondamentale era evidentemente quella di Pechino, dove giovedì l'inviato delle Nazioni Unite ha parlato personalmente con il viceministro degli Esteri Wang Yi. Yi ha assicurato a Gambari che "la Cina continuerà a dare il supporto necessario alla mediazione dell'Onu", auspicando che vertici militari e partiti d'opposizione possano giungere ad una soluzione pacifica "attraverso il dialogo". Parole al vento? Certo: nello stesso istante, ma in un'altra città (ad Harbin), i ministri degli Esteri di Cina, Russia e India hanno ribadito la ferma opposizione a qualsiasi tipo di sanzione contro il regime di Than Shwe. Il russo Lavrov, intervistato dal "China Daily", ha motivato la presa di posizione comune sottolineando che "le pressioni sul paese non faranno altro che aggravare la situazione e provocare una nuova crisi". Dunque, o si dialoga (ma il regime non ne ha la minima intenzione) o tutto resta come prima.
Unici paesi a continuare imperterriti sulla via delle sanzioni sono Stati Uniti e Australia. Il presidente americano, George W. Bush, ha annunciato la scorsa settimana un ulteriore inasprimento delle misure, richiamando poi all'ordine Cina e Russia. Sul fronte australiano, invece, la Reserve Bank of Australia (RBA) ha deciso mercoledì di imporre sanzioni fiscali contro 418 generali militari e le loro famiglie: ogni movimento monetario dovrà ora essere approvato dalla banca stessa.
Infine, la repressione. Dopo giorni di relativa calma, in molti hanno segnalato ieri un deciso incremento delle forze di polizia per le strade: il timore è che, terminata la quaresima buddista, i monaci decidano di riprendere la protesta. Un giornalista della Reuters, al quale è stato impedito di scattare fotografie, ha parlato di assembramenti militari intorno alle pagode di Sule e Shwedagon, epicentro delle proteste di agosto e settembre. Rotoli di filo spinato sono già pronti per chiudere eventualmente le strade. Ma accuse ben più inquietanti sono recentemente piovute sulla giunta. Se "Human Rights Watch" richiama l'attenzione sulle condizioni disperate in cui si trovano le minoranze etniche birmane e gli attivisti denunciano imperterriti gli arresti indiscriminati, l'Onu ha invece lanciato ufficialmente l'allarme fame: cinque milioni di persone non hanno abbastanza cibo per sopravvivere.
E mentre il governo arruola finti monaci che si dimostrino benevolenti nei confronti del governo e dei suoi omaggi, il quotidiano inglese "Independent" ha citato una fonte diplomatica britannica sotto anonimato secondo la quale la Birmania è ormai "terra di prigionia", con raid notturni, processi sommari e veri e propri "campi di nuova vita", molto simili ai "centri di rieducazione" istituiti da Pol Pot in Cambogia. Secondo il funzionario britannico, altre proteste sulla scia di quelle di settembre sono improbabili anche se la popolazione "è determinata a dare prova della sua resistenza".
Gli ultimi numeri della repressione, forniti da Tate Naing della Assistance Association of Political Prisoners , parlano di oltre 4000 arresti da parte della giunta (tra monaci, attivisti e persone comuni) da quando la repressione ha preso il via; almeno 700 persone sarebbero ancora dietro le sbarre. Secondo il governo birmano, invece, la maggior parte degli arrestati sarebbe già in libertà e solo 190 persone sarebbero ancora sotto custodia.
L'Occidentale