
La notizia della malattia di Olmert è giunta come un fulmine a ciel sereno, mentre i riflettori della stampa erano puntati su Israele per ben altri motivi. Primo: il ministro della Difesa Barak ha dato il via ai primi tagli energetici alla Striscia di Gaza, una misura contro i ripetuti lanci di razzi Qassam. Secondo: dopo le visite diplomatiche del premier in Russia, Francia e Gran Bretagna, il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha visitato la Cina – nella speranza di sensibilizzare sul pericolo rappresentato dalla corsa alla bomba atomica iraniana. Come si vede, sono giorni carichi d'appuntamenti e questioni scottanti: la speranza degli israeliani è che la malattia di Olmert non rappresenti un ostacolo per l'azione di governo, che mai come in questi mesi deve essere forte e decisa. Le parole del premier, nel corso della conferenza stampa, erano tese a rassicurare gli animi: perché, allora, convocare i giornalisti in tutta fretta? Il pensiero non può che andare ad Ariel Sharon, da tempo in stato di coma: il governo israeliano crede giustamente che sulla salute di chi governa debba esserci la massima trasparenza. Olmert e chi gli sta vicino vuole tranquillizzare gli animi, ma in caso di peggioramento della salute del premier è bene che la popolazione sia preparata in anticipo. Un cambio della premiership israeliana, in un momento così delicato, sarebbe infatti una questione di grande peso politico non solo per Israele ma per tutto il Medio Oriente.
Il governo israeliano, infatti, è costantemente impegnato su più fronti d'importanza decisiva. Notizia del giorno, prima che Olmert desse notizia del cancro, era ad esempio il via libera ai tagli energetici contro la Striscia di Gaza (controllata da Hamas) dato domenica mattina dal ministro della Difesa, Ehud Barak. La decisione israeliana risale alla fine di settembre, quando Gaza venne ufficialmente riconosciuta come "entità nemica" in seguito ai continui lanci di razzi Qassam sul territorio d'Israele. Primo bersaglio, la cittadina di Sderot: la popolazione giunse fino alla Knesset per chiedere al governo di fare qualcosa, dopo che un missile sfiorò una scuola elementare traumatizzando molti bambini.
Quelle che seguirono furono discussioni animate: da un lato i falchi, che proponevano un'invasione armata di Gaza per stroncare definitivamente le rampe di lancio dei missili Qassam, dall'altro le colombe, che suggerivano di ostacolare Hamas per mezzo di sanzioni. La scelta, sia ben chiaro, non è delle più facili: entrare nella Striscia con i carri armati significa scatenare immediatamente la riprovazione internazionale, in prima linea nel condannare qualsiasi iniziativa militare israeliana; sanzionare economicamente Hamas può invece non essere sufficiente al fine di bloccare i razzi (e lo scontento dei cittadini israeliani bersagliati, in prima linea nella richiesta della linea dura, continuerebbe a crescere). Qualsiasi scelta, come spesso accade per Israele, ha degli svantaggi: a vincere, in questo caso, è stata la linea morbida.
In cosa consistono le misure israeliane? Il piano del ministero della Difesa è stato firmato da Barak giovedì scorso: una prima fase di sanzioni prevede saltuari tagli di corrente e carburante per gli abitanti della Striscia di Gaza, ad eccezione di strutture fondamentali come gli ospedali. Ulteriori inasprimenti delle misure adottate, se i lanci di razzi Qassam dovessero continuare, saranno decisi di volta in volta. Il ministro delle Infrastrutture Benjamin Ben-Eliezer, intervistato da "Israel Radio" alla fine della scorsa settimana, ha giustificato la decisione del governo chiedendosi se "dovremmo dire loro di continuare a lanciare razzi contro le stesse strutture energetiche che gli forniscono elettricità e di continuare a bombardare i sistemi idraulici che gli forniscono l'acqua": una delle tante domande alle quali parte della popolazione israeliana, soprattutto quella residente nelle zone maggiormente colpite dai Quassam, chiede a gran voce una risposta.
Le misure punitive hanno avuto inizio domenica mattina, con il taglio del carburante. Un funzionario governativo, interpellato dalla "Reuters", ha poi fornito dettagli precisi: "In linea con la decisione del governo israeliano, il ministero della Difesa ha cominciato a tagliare le forniture energetiche alla Striscia di Gaza tra il 5% e l'11%, a seconda del tipo di carburante". Secondo alcuni ufficiali palestinesi, invece, tanto il diesel quanto la benzina sarebbero già stati tagliati tra un quarto e metà per tutti i distributori di Gaza. Il premier israeliano Olmert, dopo l'inizio dei tagli, ha voluto però rassicurare la popolazione affermando che non permetterà mai una crisi umanitaria. Funzionari governativi hanno inoltre spiegato che Israele continuerà a garantire il passaggio di medicinali e beni di prima necessità nella Striscia.
La domanda, a questo punto, è se le sanzioni possano davvero cambiare qualcosa nei burrascosi rapporti con
Nonostante abbia scelto la via più morbida delle sanzioni, anche questa volta le critiche a Israele non si sono fatte attendere. Hamas, per bocca del portavoce Fawzi Barhoum, ha spiegato come "il tentativo di strangolare la popolazione palestinese porterà a un'esplosione che riguarderà non solo Hamas ma tutta la regione". Più velata la critica da parte delle Nazione Unite e dell'Unione Europea, secondo le quali una "punizione collettiva" contro un milione e mezzo di persone non è la giusta soluzione. Critiche, infine, molte organizzazioni umanitarie, tanto che
Ma la politica estera israeliana non se la passa troppo bene neanche sul fronte della questione iraniana. Dopo aver visitato Mosca, Londra e Parigi – cercando sostegno contro Ahmadinejad e il suo progetto atomico –, Olmert ha preferito lasciare il dialogo con la Cina al suo intraprendente ministro degli Esteri, Tzipi Livni. Giunta all'Università di Pechino, la Livni ha parlato ieri pubblicamente della necessità di fare fronte comune contro le iniziative iraniane: "Dietro quasi tutti i conflitti che abbiamo in Medio Oriente, possiamo vedere la lunga ombra dell'Iran", ha detto il ministro israeliano, sottolineando che "se questo pericoloso regime raggiunge la tecnologia necessaria per sviluppare armi atomiche, allora la stabilità che stiamo cercando di costruire in Medio Oriente svanirà di colpo". Convincere la Cina è fondamentale, ha riflettuto la Livni, anche solo per il fatto che "ricopre un ruolo chiave nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite".
Belle parole che difficilmente faranno breccia nelle maglie del governo comunista cinese. Il gigante asiatico, infatti, ha già dichiarato di essere assolutamente contrario all'imposizione di nuove sanzioni, al pari della Russia. Fondamentali, in questa scelta, ragioni di tipo economico (le stesse che portano la Cina a proteggere il regime birmano): a questo proposito, la Livni ha consigliato a tutti di mettere gli interessi in secondo piano per pensare "alle gravi implicazioni che un Iran nucleare potrebbe avere sulla stabilità di questo pianeta". Ma la Cina è rimasta sulle sue posizioni, ribadendo che il dialogo e la diplomazia restano per tutti le migliori condizioni per raggiungere la pace.
E a dare man forte all'asse russo-cinese sono giunte indirettamente le parole del direttore dell'Aiea El Baradei, intervistato dalla "Cnn": "Non vi è alcuna prova che l'Iran stia effettivamente fabbricando una bomba atomica". E le continue minacce statunitensi, ha proseguito Baradei, altro non farebbero che "gettare benzina sul fuoco". Una diretta stoccata a George W. Bush. Il presidente americano, che si accinge ad approvare nuove sanzioni contro il regime di Teheran, è sempre stato in cattivi rapporti con El Baradei per via delle sue posizioni eccessivamente morbide e dilatorie nei confronti delle ambizioni nucleari degli ayatollah. Baradei, effettivamente, non ha trovato prove concrete della proliferazione nucleare iraniana: ma allo stesso tempo molti servizi segreti mondiali, e non solo statunitensi, se ne dicono certi, così come è certo che l'Iran abbia tutti i mezzi per nascondere all'Aiea la propria attività. El Baradei, senza dubbio, sa di non poter vedere tutto: uno dei suoi scopi, allora, potrebbe essere quello di togliere la palla iraniana dalle mani di Bush, per consegnarla direttamente in quelle del suo successore alla presidenza.
L'Occidentale