George W. Bush, giunto al settimo anno del suo mandato presidenziale, ne ha viste tante. Al di là dei due fronti principali della sua avventura politica, cioè le guerre in Afghanistan e Iraq, mai come oggi sembra impegnato in contesti tanto diversi quanto importanti. Per il futuro dell'America e per quello del mondo intero. Turchia, Iran, Russia, Birmania, Cina: nel giro di poche settimane, il presidente degli Stati Uniti si trova a fronteggiare questioni potenzialmente deflagranti. Temi tanto importanti, a sentir lui, da rischiare una "terza guerra mondiale".
Il primo fronte da prendere in considerazione, in quanto maggiormente legato alla stretta attualità, è quello turco. La Turchia è sempre stata una grande alleata degli Stati Uniti, anche nella pratica della guerra in Iraq. Ma qualcosa è improvvisamente cambiato: il Congresso degli Stati Uniti, contro il volere di Bush, ha recentemente votato una risoluzione che condanna la strage degli Armeni, perpetrata tra il 1915 e il 1917 da un impero Ottomano in via d'estinzione. La questione, in Turchia, è molto delicata: ancora oggi il massacro viene ufficialmente negato, e chi ne parla – come il premio Nobel per la letteratura Pamuk – rischia grosso. Ankara, infatti, l'ha presa molto male: così male da ritirare il proprio ambasciatore a Washington (che ha fatto ritorno solo il 22 ottobre), una pratica fuori dall'ordinario. Proprio nel mezzo della crisi sulla questione armena è giunto poi il colpo di grazia per i rapporti tra Usa e Turchia, questa volta per mano di ribelli curdi del Pkk che hanno ucciso sedici militari turchi sul confine con l'Iraq. Altri otto, inoltre, sono stati rapiti. Il dissenso, in questo frangente, riguarda la reazione turca: il presidente Erdogan, dopo aver effettuato alcuni bombardamenti, vorrebbe entrare militarmente nel Kurdistan; Bush, dall'altra parte, vorrebbe evitarlo per non portare ulteriore scompiglio nel già ostico Iraq. Il braccio di ferro è in continua evoluzione: e il fatto che il presidente dell'Iraq Talabani sia un curdo, certo non aiuta.
Passiamo all'Iran e al presidente Ahmadinejad, uno dei fili conduttori degli ultimi anni di presidenza Bush. Il braccio di ferro tra i due leader risale al 2005, subito dopo l'elezione presidenziale che ha portato l'ex sindaco di Teheran a guidare l'Iran (sotto lo sguardo, vigile, dell'Ayatollah Khamenei). A complicare i rapporti bilaterali, la ferrea volontà di Ahmadinejad di voler arricchire l'uranio per "scopi civili". Sin dall'inizio se la bevono in pochi: Israele e Stati Uniti hanno sempre sostenuto che Ahmadinejad punta alla costruzione della bomba atomica, magari per gettarla contro quello "Stato sionista" che l'Iran vorrebbe tanto "estirpare come un cancro". L'Onu, in questi anni, non si è dimostrato sufficientemente risoluto da bloccare l'Iran e il suo folle presidente per mezzo delle sanzioni: ancora oggi, in vista di una terza tornata di misure più restrittive, si discute inutilmente rischiando il veto di Russia e Cina. Bush non demorde: più volte, nel corso della sua presidenza, ha dichiarato che non permetterà mai all'Iran di dotarsi della bomba atomica, a costo di bombardarne le infrastrutture. I tempi stringono: il presidente degli Stati Uniti deve decidere sul da farsi, prima che scada il suo mandato e la pratica iraniana passi in altre mani. Attaccherà l'Iran? In molti, tra cui Seymour Hersh del "New Yorker" (che sulla questione è uno dei più informati), sostengono che tutto sia pronto: una sezione speciale della Cia avrebbe già i piani d'attacco belli e pronti, in costante aggiornamento. Bush dovrebbe solo premere il bottone verde, cosa che Dick Cheney avrebbe già fatto da tempo. Certo, in quanto a popolarità il presidente non avrebbe nulla da perdere: ma allo stesso tempo, dopo l'avventura irachena, la decisione non è delle più facili. I prossimi mesi saranno decisivi, mentre l'Iran gioca a fare il duro: sabato ha annunciato che, in caso d'attacco, undicimila razzi sono pronti ad essere lanciati contro basi americane nel giro di un minuto. Sul fronte diplomatico, poi, il negoziatore sul nucleare Larijani – un moderato – è stato sostituito da un protetto del presidente, il viceministro degli esteri Said Jalili: un altro modo per soffiare sui venti di guerra.
La pratica iraniana ci porta direttamente al fronte russo, che negli ultimi giorni sembra riecheggiare di toni da guerra fredda. Due sono i principali motivi di tensione con Vladimir Putin: la volontà americana di installare uno scudo spaziale nell'Europa dell'est e la nuova – esibita – sintonia tra lo zar di Russia e Mahmud Ahmadinejad. Per quanto riguarda l'installazione dello scudo, le ultime trattative (fallite) tra i due ex protagonisti della Guerra Fredda risalgono a dieci giorni fa: Condoleezza Rice e Robert Gates sono andati a Mosca, dove si sono incontrati con Putin e il suo entourage. Nulla di fatto: la Russia pretende l'immediato abbandono del progetto, pena una nuova caccia agli armamenti. Le distanze tra Russia e America si sono poi trasformate in abisso quando il presidente russo, alla conferenza dei cinque paesi che si affacciano sul Mar Caspio, ha sancito un'alleanza di fatto con l'Iran, mettendo la parola fine alla possibilità di sanzioni concrete contro il regime islamico. Carlo Panella, su queste pagine, ha parlato di nuovo "patto Moltov-Von Ribbentropp": la sensazione, in effetti, è che ancora una volta l'ex-Urss abbia deciso di stare dalla parte del nazismo.
Turchia, Iran e Russia sono i tre fronti caldi, quelli dove il rischio di deflagrazione è senza dubbio maggiore. Ci sono però altre questioni che vedono impegnato il presidente Bush e il suo entourage, e la crisi del Myanmar è una di queste. Gli Stati Uniti, principalmente nella persona della first lady Laura Bush, sono infatti in primo piano nella lotta contro la dittatura birmana di Than Shwe. Obiettivo degli Stati Uniti è quello di sostenere i monaci e favorire l'imposizioni di sanzioni dure ed efficaci, possibilmente a livello internazionale. Laura Bush ha dichiarato apertamente che la giunta dovrebbe andarsene, mentre la Casa Bianca segue costantemente la questione e alza il tiro: pochi giorni fa, annunciando un ulteriore inasprimento delle sanzioni da parte degli americani, il presidente ha dichiarato che "la popolazione della Birmania ha dimostrato grande coraggio nel fronteggiare un'immensa repressione; ci stanno chiedendo di aiutarli: non dobbiamo essere sordi di fronte alle loro lacrime". L'energia spesa a favore della popolazione birmana ha evidentemente messo d'accordo tanto i Repubblicani quanto i Democratici, in una delle poche occasioni di sintonia bipartisan registrate ultimamente al Congresso americano.
Ma è proprio la questione birmana ad aprire un nuovo fronte per l'America, contro un nemico storico come la Cina. La questione è semplice: la Cina è il maggior sponsor e sostenitore della dittatura birmana. E senza l'ok della Cina all'imposizione di sanzioni, il regime di Than Shwe continuerà ad agire indisturbato. Ecco allora che Gorge W. Bush, un giorno sì e l'altro pure, richiama il gigante asiatico a prendere posizione di fronte ad una palese violazione di tutti i diritti fondamentali da parte della dittatura del Myanmar. Ma la Cina continua a fare orecchie da mercante. A peggiorare i rapporti tra i due paesi, poi, ci si è messo il Dalai Lama: il Congresso americano l'ha infatti insignito della Medaglia d'Oro, altissima onorificenza. La Cina, che aveva più volte "consigliato" agli Stati Uniti di abolire la premiazione, è andata su tutte le furie: il ministro degli Esteri cinese, Liu Jianchao, ha definito il premio Nobel per la pace "l'ispiratore e il capo delle forze secessioniste del Tibet", per poi chiedere agli Stati Uniti di fare qualcosa per riparare alle relazioni tra America e Cina, gravemente danneggiate. Bush, finora, ha tenuto duro rivendicando il conferimento della medaglia.
L'ultimo fronte degno di nota, che vede impegnata in prima persona il segretario di Stato Condoleezza Rice, è più che altro un sogno. Come già era capitato in passato, giunto a fine mandato il presidente degli Stati Uniti di turno tenta il colpo grosso mettendo d'accordo israeliani e palestinesi. Bush ci riprova, nella speranza di passare alla storia come il risolutore del conflitto israele-palestinese (operazione che a Clinton sfuggì per un soffio). La tanto attesa conferenza di pace dovrà tenersi ad Annapolis, nel Maryland, in una data ancora da definire: i più ottimisti parlano di fine novembre. La Rice, con frequenti viaggi in Medio Oriente, segue le trattative preliminari tra il premier israeliano Olmert e il presidente dell'Anp Abu Mazen: le distanze tra i due sembrano ancora incolmabili, ma chissà che un miracolo di fine mandato non possa consegnare Bush alla storia per qualcosa di ben diverso dalla guerra in Iraq.
Il primo fronte da prendere in considerazione, in quanto maggiormente legato alla stretta attualità, è quello turco. La Turchia è sempre stata una grande alleata degli Stati Uniti, anche nella pratica della guerra in Iraq. Ma qualcosa è improvvisamente cambiato: il Congresso degli Stati Uniti, contro il volere di Bush, ha recentemente votato una risoluzione che condanna la strage degli Armeni, perpetrata tra il 1915 e il 1917 da un impero Ottomano in via d'estinzione. La questione, in Turchia, è molto delicata: ancora oggi il massacro viene ufficialmente negato, e chi ne parla – come il premio Nobel per la letteratura Pamuk – rischia grosso. Ankara, infatti, l'ha presa molto male: così male da ritirare il proprio ambasciatore a Washington (che ha fatto ritorno solo il 22 ottobre), una pratica fuori dall'ordinario. Proprio nel mezzo della crisi sulla questione armena è giunto poi il colpo di grazia per i rapporti tra Usa e Turchia, questa volta per mano di ribelli curdi del Pkk che hanno ucciso sedici militari turchi sul confine con l'Iraq. Altri otto, inoltre, sono stati rapiti. Il dissenso, in questo frangente, riguarda la reazione turca: il presidente Erdogan, dopo aver effettuato alcuni bombardamenti, vorrebbe entrare militarmente nel Kurdistan; Bush, dall'altra parte, vorrebbe evitarlo per non portare ulteriore scompiglio nel già ostico Iraq. Il braccio di ferro è in continua evoluzione: e il fatto che il presidente dell'Iraq Talabani sia un curdo, certo non aiuta.
Passiamo all'Iran e al presidente Ahmadinejad, uno dei fili conduttori degli ultimi anni di presidenza Bush. Il braccio di ferro tra i due leader risale al 2005, subito dopo l'elezione presidenziale che ha portato l'ex sindaco di Teheran a guidare l'Iran (sotto lo sguardo, vigile, dell'Ayatollah Khamenei). A complicare i rapporti bilaterali, la ferrea volontà di Ahmadinejad di voler arricchire l'uranio per "scopi civili". Sin dall'inizio se la bevono in pochi: Israele e Stati Uniti hanno sempre sostenuto che Ahmadinejad punta alla costruzione della bomba atomica, magari per gettarla contro quello "Stato sionista" che l'Iran vorrebbe tanto "estirpare come un cancro". L'Onu, in questi anni, non si è dimostrato sufficientemente risoluto da bloccare l'Iran e il suo folle presidente per mezzo delle sanzioni: ancora oggi, in vista di una terza tornata di misure più restrittive, si discute inutilmente rischiando il veto di Russia e Cina. Bush non demorde: più volte, nel corso della sua presidenza, ha dichiarato che non permetterà mai all'Iran di dotarsi della bomba atomica, a costo di bombardarne le infrastrutture. I tempi stringono: il presidente degli Stati Uniti deve decidere sul da farsi, prima che scada il suo mandato e la pratica iraniana passi in altre mani. Attaccherà l'Iran? In molti, tra cui Seymour Hersh del "New Yorker" (che sulla questione è uno dei più informati), sostengono che tutto sia pronto: una sezione speciale della Cia avrebbe già i piani d'attacco belli e pronti, in costante aggiornamento. Bush dovrebbe solo premere il bottone verde, cosa che Dick Cheney avrebbe già fatto da tempo. Certo, in quanto a popolarità il presidente non avrebbe nulla da perdere: ma allo stesso tempo, dopo l'avventura irachena, la decisione non è delle più facili. I prossimi mesi saranno decisivi, mentre l'Iran gioca a fare il duro: sabato ha annunciato che, in caso d'attacco, undicimila razzi sono pronti ad essere lanciati contro basi americane nel giro di un minuto. Sul fronte diplomatico, poi, il negoziatore sul nucleare Larijani – un moderato – è stato sostituito da un protetto del presidente, il viceministro degli esteri Said Jalili: un altro modo per soffiare sui venti di guerra.
La pratica iraniana ci porta direttamente al fronte russo, che negli ultimi giorni sembra riecheggiare di toni da guerra fredda. Due sono i principali motivi di tensione con Vladimir Putin: la volontà americana di installare uno scudo spaziale nell'Europa dell'est e la nuova – esibita – sintonia tra lo zar di Russia e Mahmud Ahmadinejad. Per quanto riguarda l'installazione dello scudo, le ultime trattative (fallite) tra i due ex protagonisti della Guerra Fredda risalgono a dieci giorni fa: Condoleezza Rice e Robert Gates sono andati a Mosca, dove si sono incontrati con Putin e il suo entourage. Nulla di fatto: la Russia pretende l'immediato abbandono del progetto, pena una nuova caccia agli armamenti. Le distanze tra Russia e America si sono poi trasformate in abisso quando il presidente russo, alla conferenza dei cinque paesi che si affacciano sul Mar Caspio, ha sancito un'alleanza di fatto con l'Iran, mettendo la parola fine alla possibilità di sanzioni concrete contro il regime islamico. Carlo Panella, su queste pagine, ha parlato di nuovo "patto Moltov-Von Ribbentropp": la sensazione, in effetti, è che ancora una volta l'ex-Urss abbia deciso di stare dalla parte del nazismo.
Turchia, Iran e Russia sono i tre fronti caldi, quelli dove il rischio di deflagrazione è senza dubbio maggiore. Ci sono però altre questioni che vedono impegnato il presidente Bush e il suo entourage, e la crisi del Myanmar è una di queste. Gli Stati Uniti, principalmente nella persona della first lady Laura Bush, sono infatti in primo piano nella lotta contro la dittatura birmana di Than Shwe. Obiettivo degli Stati Uniti è quello di sostenere i monaci e favorire l'imposizioni di sanzioni dure ed efficaci, possibilmente a livello internazionale. Laura Bush ha dichiarato apertamente che la giunta dovrebbe andarsene, mentre la Casa Bianca segue costantemente la questione e alza il tiro: pochi giorni fa, annunciando un ulteriore inasprimento delle sanzioni da parte degli americani, il presidente ha dichiarato che "la popolazione della Birmania ha dimostrato grande coraggio nel fronteggiare un'immensa repressione; ci stanno chiedendo di aiutarli: non dobbiamo essere sordi di fronte alle loro lacrime". L'energia spesa a favore della popolazione birmana ha evidentemente messo d'accordo tanto i Repubblicani quanto i Democratici, in una delle poche occasioni di sintonia bipartisan registrate ultimamente al Congresso americano.
Ma è proprio la questione birmana ad aprire un nuovo fronte per l'America, contro un nemico storico come la Cina. La questione è semplice: la Cina è il maggior sponsor e sostenitore della dittatura birmana. E senza l'ok della Cina all'imposizione di sanzioni, il regime di Than Shwe continuerà ad agire indisturbato. Ecco allora che Gorge W. Bush, un giorno sì e l'altro pure, richiama il gigante asiatico a prendere posizione di fronte ad una palese violazione di tutti i diritti fondamentali da parte della dittatura del Myanmar. Ma la Cina continua a fare orecchie da mercante. A peggiorare i rapporti tra i due paesi, poi, ci si è messo il Dalai Lama: il Congresso americano l'ha infatti insignito della Medaglia d'Oro, altissima onorificenza. La Cina, che aveva più volte "consigliato" agli Stati Uniti di abolire la premiazione, è andata su tutte le furie: il ministro degli Esteri cinese, Liu Jianchao, ha definito il premio Nobel per la pace "l'ispiratore e il capo delle forze secessioniste del Tibet", per poi chiedere agli Stati Uniti di fare qualcosa per riparare alle relazioni tra America e Cina, gravemente danneggiate. Bush, finora, ha tenuto duro rivendicando il conferimento della medaglia.
L'ultimo fronte degno di nota, che vede impegnata in prima persona il segretario di Stato Condoleezza Rice, è più che altro un sogno. Come già era capitato in passato, giunto a fine mandato il presidente degli Stati Uniti di turno tenta il colpo grosso mettendo d'accordo israeliani e palestinesi. Bush ci riprova, nella speranza di passare alla storia come il risolutore del conflitto israele-palestinese (operazione che a Clinton sfuggì per un soffio). La tanto attesa conferenza di pace dovrà tenersi ad Annapolis, nel Maryland, in una data ancora da definire: i più ottimisti parlano di fine novembre. La Rice, con frequenti viaggi in Medio Oriente, segue le trattative preliminari tra il premier israeliano Olmert e il presidente dell'Anp Abu Mazen: le distanze tra i due sembrano ancora incolmabili, ma chissà che un miracolo di fine mandato non possa consegnare Bush alla storia per qualcosa di ben diverso dalla guerra in Iraq.
Le questioni sul tavolo sono svariate, e tutte fondamentali. Il presidente Bush vorrebbe risalire la china dei sondaggi prima che gli americani si rechino alle urne, nel novembre 2008: sull'Iraq solo la storia potrà dargli ragione, ma sulla breve distanza si sente il bisogno di qualcosa di nuovo. Quello che è certo è che l'agenda americana, in campo internazionale, resta fittissima: e lo sarà fino al dicembre del 2008. Molti altri a fronti, di qui a un anno, potrebbero aprirsi segnando definitivamente l'amministrazione Bush. Ma questo, in gran parte, dipenderà da quello che paesi come Russia e Iran decideranno di fare.
L'Occidentale