Una pace definitiva in Medio Oriente: sembra essere questo il sogno ricorrente di ogni presidente degli Stati Uniti, giunto alle soglie di fine mandato. Contribuire alla creazione di due stati, Israele e la Palestina, capaci di convivere civilmente l'uno accanto all'altro: un colpo di teatro che assicurerebbe un posto nella storia. L'ultimo a provarci è stato Bill Clinton, e per poco non ci è riuscito: ma a Camp David, nel luglio 2000, Arafat rifiutò all'ultimo le proposte di Barak. Risultato: niente di fatto.
Oggi, sette anni dopo, è il turno di George W. Bush (con il fondamentale contributo di Condoleezza Rice, alla quale il presidente sembra aver affidato la pratica israelo-palestinese). Da mesi si parla infatti di una nuova conferenza di pace sul Medio Oriente, organizzata dagli Stati Uniti, che dovrebbe tenersi a fine novembre ad Annapolis. Oltre a Bush, il premier israeliano Olmert e il leader palestinese Abu Mazen, dovrebbero partecipare anche alcuni stati arabi. E secondo molti osservatori, il successo (o l'insuccesso) dell'iniziativa dipenderà proprio dal numero dei "vicini di casa" che accetteranno l'invito degli americani.
Una conferenza di pace non è mai frutto di improvvisazione. Nonostante la scarsa copertura mediatica dedicata ai preparativi del vertice, le diplomazie dei principali protagonisti sono al lavoro da tempo. Obiettivo: evitare un ulteriore fallimento, da sommare ai molti che hanno sinora contraddistinto la tormentata storia del conflitto israelo-palestinese. Per quanto riguarda Bush, poi, un "nulla di fatto" non aiuterebbe certo a risollevare il suo consenso presso il popolo americano. Gli ostacoli da aggirare, come sempre, sono molti: a partire da Hamas, contraria a qualsiasi concessione allo Stato ebraico.
La strada che porta ad Annapolis è contrassegnata da incontri preliminari tra delegati israeliani e palestinesi. Il senso di questi incontri, ritenuti fondamentali da ambo le parti, è quello di giungere negli Stati Uniti con le idee chiare e possibilmente una bozza condivisa, senza la quale - stando a quanto affermato da Ahmed Qureia, leader della delegazione palestinese - l'incontro potrebbe anche saltare. Non a caso George W. Bush, che ha ostentato ottimismo in vista dell'incontro americano, ha lasciato intuire che la data della conferenza verrà decisa in base ai progressi che emergeranno dagli incontri tra i due contendenti.
A dare il via alle discussioni, un vertice privato tra Olmert e Abu Mazen, avvenuto il 3 ottobre. Ben poco è trapelato, ma secondo il quotidiano israeliano "Haaretz" Abu Mazen avrebbe presentato ad Olmert le questioni di primaria importanza per il popolo palestinese. Tra i punti esposti da Abbas comparirebbero la richiesta di un immediato congelamento degli insediamenti, un ritorno dei confini a quelli del 1967, la creazione di una territorio sovranazionale per permettere il passaggio tra Gaza e il West Bank, la sovranità su Gerusalemme e un indennizzo monetario per le sofferenze provocate ai palestinesi. Richieste pesanti, certo: come tutte le condizioni iniziali, inevitabilmente soggette a lunghi negoziati. Dall'incontro tra i due leader (il sesto nel corso del 2007) sono emerse anche alcune informazioni sulla futura conferenza: Abu Mazen si aspetta la partecipazione di 36 paesi (tra cui dodici stati arabi, tre islamici, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e i paesi del G8). Olmert ha invece ricordato che la conferenza di pace negli Stati Uniti "non sostituisce negoziati diretti fra israeliani e palestinesi".
Lunedì 8 ottobre si è tenuto invece il primo incontro ufficiale tra le due delegazioni diplomatiche. Shimon Peres, presidente d'Israele, ha parlato alla Knesset: "Non bisogna dare modo di pensare che a Israele non interessi il raggiungimento della pace", mentre Olmert ha rassicurato sulla credibilità dell'attuale leadership palestinese - "Non sono terroristi", ha affermato - e sulla comune volontà di raggiungere un accordo condiviso. Pressochè nulla è trapelato sui contenuti dell'incontro: un membro del governo israeliano ha voluto far sapere che "questi incontri non sono segreti, ma l'idea è quella di lavorare intensamente e non sotto gli occhi dei media", per poi mettere in guardia da tutte le indiscrezioni infondate che riempiranno nelle prossime settimane le pagine dei giornali mondiali. Lavoro duro e nessuna dichiarazione: questo sembra essere il leitmotiv che accompagnerà le trattative dei prossimi giorni. Una riservatezza, visto il contesto nel quale ci si trova a dialogare, che suona francamente indispensabile.
Una certezza, però, c'è: al centro del tavolo ci sarà il futuro di Gerusalemme. Abu Mazen ha dichiarato senza mezzi termini che "Gerusalemme è sempre stata nei nostri cuori, e la speranza che ci ha accompagnato fino a qui", per poi ribadire che "non può esserci una Palestina indipendente senza Gerusalemme capitale. E' una considerazione che terremo ben presente nei difficili giorni a venire". Anche il vicepremier israeliano Haimi Ramon ha sottolineato l'importanza di Gerusalemme: "Chiunque pensi che l'oggetto delle discussioni sarà limitato alla struttura delle istituzioni palestinesi è fuori strada. Israele ha interesse che vengano riconosciuti tutti i quartieri ebraici di Gerusalemme, e consegnati quelli arabi ai palestinesi". L'idea del vicepremier, sulla carta, è semplice ed "in linea con i principi di Kadima": "Ci saranno scambi territoriali. A Gerusalemme quello che è arabo sarà palestinese e quello che è ebreo sarà israeliano". Secondo il quotidiano londinese "Times", le due parti starebbero pensando di mettere la Città Vecchia – la zona più santa e maggiormente contesa della città – nelle mani di un'amministrazione speciale vicina al governo giordano.
Ed è ancora la “questione Gerusalemme” a infuocare i maggiori oppositori alle trattative: entrambe le leadership devono infatti confrontarsi con "nemici interni". Alla Knesset, l'opposizione guidata dal leader del Likud Netanyahu ha attaccato la condotta di Olmert e di Kadima: la strategia del governo, secondo il Likud, porterebbe ad una presenza di terroristi iraniani a Gerusalemme e in Israele. "Il ritiro unilaterale dal Libano ha creato un avamposto iraniano al nord, dal quale Israele è stato attaccato, e il ritiro unilaterale da Gaza ha creato un secondo avamposto iraniano, Hamastan. Adesso il governo sta pianificando un terzo ritiro, dalla Giudea e dalla Samaria, che creerà una terza base iraniana", ha riflettuto Netanyahu, che ha concluso il suo discorso al parlamento mettendo in guardia da Hamas: "Dare ad Hamas metà di Gerusalemme renderebbe invivibile il resto della città". Nel corso di una riunione di governo tenutasi domenica, anche Tzipi Livni ed altri ministri hanno messo in guardia Olmert dai rischi di troppe concessioni "solo per arrivare al summit con in mano un pezzo di carta".
Sull'altra sponda, oppositori di Abu Mazen sono evidentemente i militanti di Hamas: di trattative di pace, dopo aver preso il controllo totale della Striscia di Gaza ai danni di Fatah, non vogliono proprio sentir parlare. Il portavoce del movimento islamico ha dichiarato a "France Press" di voler organizzare una contro-conferenza a Damasco, prevista per il 7 novembre e immediatamente bollata come "illegale" da Fatah. Il primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, si sta inoltre prodigando per boicottare il vertice ufficiale di Annapolis: per farlo, si è appellato direttamente agli stati arabi - Egitto e Arabia Saudita su tutti - pregandoli di "rivedere la decisione di prendere parte alla conferenza". Tempi duri all'orizzonte.
L'Occidentale