06 novembre 2007

Medio Oriente e Birmania mettono alla prova gli sforzi diplomatici

Lui è nigeriano, si chiama Ibrahim Gambari e ha 63 anni. Lei è un'afroamericana dell'Alabama, si chiama Condoleezza Rice e ha 53 anni. Entrambi compiranno gli anni breve, entrambi hanno in queste ore pesanti responsabilità diplomatiche sulle spalle. Il professor Gambari, dopo una brillante carriera accademica, è inviato speciale delle Nazioni Unite nell'ex-Birmania. La professoressa Rice, dopo aver insegnato alla Stanford University, dal 2005 è il 66° segretario di Stato americano. Entrambi, in regioni molto diverse, si trovano questa settimana a mediare per un futuro migliore: Gambari in Myanmar, nella speranza di favorire una transizione democratica nel paese guidato dalla giunta militare di Than Shwe; la Rice in Medio Oriente, per cercare di mettere d'accordo israeliani e palestinesi in vista della conferenza internazionale di pace che si terrà (a breve?) in Maryland.

Ibrahim Gambari è alla sua seconda visita in Myanmar, dopo la violenta repressione attuata a settembre dal regime militare contro i monaci buddisti rei di aver sfilato pacificamente per le strade reclamando maggiore libertà – per loro e per la leader del partito d'opposizione, Aung San Suu Kyi. L'inviato delle Nazioni Unite, reduce da un viaggio diplomatico in sei capitali asiatiche a caccia di sostegno per la sua missione, è atterrato sabato a Rangoon, per poi essere trasferito nella nuova capitale Naypyitaw, immersa nella giungla e maggiormente indicata per coprire gli sporchi affari di Than Shwe. Gambari è così ufficialmente tornato nella Birmania della discordia, dove i collegamenti internet sono nuovamente "saltati", i monaci sono stati arrestati (e rilasciati, solo in minima parte, col contagocce) e la calma è stata ristabilita col bastone e la tortura.

Dalla sua ultima visita ad oggi, in Birmania ben poco è cambiato. Per assecondare le richieste delle Nazione Unite, la giunta ha organizzato un incontro farsa tra il ministro Aung Kyi e la leader dei dissidenti Aung San Suu Kyi: un'ora e un quarto di colloquio per dare sfoggio di buona volontà, salvo proibire alla donna qualsiasi dichiarazione pubblica sull'esito dei colloqui. Cina e India, intanto, hanno continuato a proteggere il regime mettendo il veto (al momento ancora virtuale) a qualsiasi proposta di sanzioni. E se la violenza della repressione ha subito un calo, è solo perché i monaci hanno messo la parola fine alle proteste di fronte ad arresti indiscriminati, torture e uccisioni. In questo clima da incubo, Gambari dovrebbe quantomeno chiedere il conto alla giunta: perché Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari? Perché tutti quei monaci restano ancora dietro le sbarre? Perché nulla è trapelato sul contenuto dei colloqui con la leader dell'opposizione?

Va da sé che Than Shwe e la sua corte militare farebbero ben volentieri a meno di Gambari e delle sue domande. L'ospite, in altri termini, è sgradito: ma accoglierlo è assolutamente fondamentale, almeno per tenere buona la comunità internazionale guidata da Francia e Stati Uniti. Ma la giunta è furba, e si è chiesta: come evitare le questioni fondamentali? La risposta sta nell'improvvisa decisione di cacciare dal Myanmar il funzionario delle Nazioni Unite Charles Petrie. La colpa "ufficiale" di Petrie e dei suoi collaboratori è quella di aver pubblicato un documento nel quale, dopo aver analizzato le disperate condizioni economico-sociali del paese, la giunta emerge come il maggior responsabile della povertà e della mancanza di diritti. Di qui la lettera del governo, che accusa il funzionario Onu di aver agito "oltre le sue competenze", rendendosi così indesiderato e prossimo all'espulsione. La decisione di Than Shwe, manco a dirlo, ha scatenato un diluvio di proteste internazionali, dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, il quale ha subito annunciato che "Gambari esprimerà ai militari birmani tutte le mi preoccupazioni in materia", a Stati Uniti e Unione Europea, per i quali l'atto della giunta è un "oltraggio" alla comunità internazionale.

E proprio lo scandalo cercava la giunta. Non è passato inosservato, infatti, come la mossa di Than Shwe sia un modo per mettere la questione-Petrie al centro del dibattito con Gambari, facendo passare in secondo piano le questioni umanitarie. La stampa birmana, da parte sua, dà man forte al progetto del regime: gli editoriali, infatti, mettono l'espulsione di Petrie in assoluta evidenza, come se Gambari fosse giunto in Myanmar solo per discutere del futuro del funzionario Onu. La missione dell'inviato nigeriano è allora, se possibile, ancora più delicata di quella precedente: nel poco tempo che Than Shwe (forse) deciderà di dedicargli, Gambari dovrà risolvere la questione Petrie per poi cercare risposte a quelle domande brucianti che tutto il mondo si pone. E se qualcosa la giunta si troverà costretta a concedere, il rischio è che sia proprio il "perdono" di Charles Petrie. Dimenticando Aung San Suu Kyi e i monaci.

Se Gambari è un ospite "imposto", i viaggi di Condoleezza in Medio Oriente sono invece manna dal cielo per i protagonisti della partita israelo-palestinese. E se Gambari deve sgomitare per un po' di considerazione da parte della giunta, l'agenda della Rice è sempre fitta d'impegni: atterrata sabato a Tel Aviv per la sua terza visita in sei settimane, dopo una sosta in Turchia per discutere con Erdogan dei separatisti turchi, Condoleezza incontrerà ancora una volta tanto il premier israeliano Olmert quanto il presidente dell'Anp Abu Mazen. Previsto inoltre un incontro con Tony Blair, inviato del quartetto per il Medio Oriente, che nella partita si è finora mantenuto sostanzialmente in disparte.

La Rice è benvoluta, certo, ma la situazione politica della regione non è facile neanche per lei. Se la ricerca di un documento congiunto tra israeliani e palestinesi (da presentare alla prossima conferenza di Annapolis, Maryland) stenta a decollare, in Palestina soffiano sempre più forte venti di guerra tra Israele e Hamas: solo ieri, mentre il segretario di Stato Usa parlava con il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni, tre razzi Qassam sono piovuti su Sderot. Uno ha colpito una casa, un altro le linee elettriche: risultato, la cittadina è al buio. Poco prima, in risposta ad altri due razzi, l'aviazione israeliana aveva ucciso quattro palestinesi nella Striscia di Gaza.

Le tensioni tra Gaza e Tel Aviv entreranno questa volta nei colloqui bilaterali: una guerra con Hamas non aiuterebbe certo il cammino verso Annapolis, ma allo stesso tempo l'azione armata sembra sempre più l'unica opzione possibile. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha rassicurato la Rice che le sanzioni non provocheranno una crisi umanitaria a Gaza, ma tutti guardano oltre: un dirigente di Hamas ha dichiarato che l'invasione israeliana sarebbe sempre più vicina, e come riprova si è registrato un aumento di miliziani in assetto da guerra nel nord della Striscia; il quotidiano libanese "Al-Akhbar", citando credibili fonti diplomatiche, ha poi dato la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero dato il loro assenso all'invasione dei territori controllati da Hamas.

Se la questione della Striscia di Gaza tiene banco dietro le quinte – pochi giorni fa Abu Mazen ha incontrato alcuni esponenti di Hamas in Cisgiordania –, in pubblico i contendenti si concentrano sulla ricerca di un accordo risolutivo. Olmert, prima dell'arrivo della Rice, ha dichiarato che spera di raggiungere un accordo definitivo prima che Bush lasci l'incarico presidenziale: esattamente quello che pensa il segretario di Stato americano, a caccia del colpaccio di fine mandato presidenziale. Ma intanto, a dominare la scena, è sempre la prudenza: in volo dalla Turchia verso Israele, la Rice ha detto chiaramente di non aspettarsi dal viaggio "alcun accordo sul documento", un leitmotiv che accompagna ormai ogni sua sortita in Medio Oriente – e allontana sempre di più la data della conferenza, ormai improbabile prima di dicembre.

Una prudenza, necessaria, che ha costellato anche l'incontro con la Livni: secondo il ministro degli Esteri, infatti, "non ci sono tensioni per il meeting, c'è una buona atmosfera: ma certo ci sono dei problemi". E il problema è lo stesso da anni, la Road Map: "Dobbiamo capire che la creazione di uno Stato palestinese dovrà venire solo dopo che la sicurezza di Israele sarà garantita". Per i palestinesi, allo stesso tempo, la sicurezza d'Israele non potrà essere garantita finché uno Stato palestinese non sarà realtà. Insomma, tanto per Condoleezza quanto per Ibrahim sarà una settimana difficile all'insegna della diplomazia: le due missioni, per motivi diversi, sembrano entrambe impossibili. Ma è dalle capacità dei due validi diplomatici che dipendono molte vite umane.

L'Occidentale