La conferenza di Annapolis, organizzata dagli Stati Uniti d'America per mettere la parola fine al conflitto israelo-palestinese, si avvicina. Qualcuno parla del 26 novembre, altri credono che si slitterà a dicembre, ma una cosa è certa: al punto in cui siamo, la conferenza si terrà e sarà nel 2007. Olmert e Abu Mazen stanno ancora lavorando, col supporto del segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice, ad un documento condiviso: le divisioni ci sono, nessuno lo nasconde. Ma da entrambe le parti, allo stesso tempo, trapela un pacato ottimismo. Al tavolo di Annapolis dovrebbero sedere anche alcuni stati arabi: di questo, tra le altre questioni, hanno parlato Peres e Gul in occasione del viaggio in Turchia del presidente israeliano. Olmert intanto, in un incontro con l'organizzazione Yesha – che rappresenta diversi gruppi di cittadini israeliani –, ha detto chiaramente che Israele sarà costretto a fronteggiarsi con alcune concessioni alla controparte: su tutte, il congelamento degli insediamenti.
Tutto bene, insomma? Non proprio. Perché, a starci bene attenti, in tutte queste manovre c'è una grande incognita: Hamas. L'assenza di Hamas, riconosciuta come entità terroristica da Europa e Stati Uniti, al tavolo delle trattative (così come a quello degli accordi preliminari) si potrebbe teoricamente interpretare come un fattore positivo: ma i rischi legati alla sua (inevitabile) esclusione dai negoziati non dovrebbero essere sottovalutati. Se è infatti altamente improbabile che Fatah, Israele e gli Stati Uniti si mettano a discutere con un'organizzazione che reputano terrorista, allo stesso tempo Hamas – che lo scorso giugno ha preso il potere con la forza occupando la Striscia di Gaza – rappresenta sempre di più un grande problema, tanto per la politica quanto per la sicurezza della regione. I leader del movimento armato, evidentemente scontenti dell'isolamento al quale sono sottoposti – tanto da parte di Fatah quanto della comunità internazionale –, stanno infatti incrementando il tasso di violenza contro i nemici storici: Israele, in primis, e Fatah, visto come un partito di traditori che ha deciso di trattare con americani e sionisti.
L'offensiva violenta di Hamas – e dei gruppi jihadisti che le gravitano attorno – contro Israele si materializza da mesi sottoforma dei razzi Qassam. Da quando il gruppo armato ha preso il controllo di Gaza, non c'è stato giorno in cui Israele non sia stato preso di mira dalle rampe di lancio jihadiste. Sull'emergenza razzi, che ha portato le popolazioni d'interi villaggi sull'orlo di uno shock, si è espresso anche il presidente israeliano Peres in occasione del suo discorso di fronte al parlamento turco: riferendosi al contributo della Turchia nella lotta contro gli attacchi terroristici, il presidente ha ricordato che solo se "i razzi saranno fermati e i prigionieri liberati, la popolazione di Gaza conoscerà la calma".
Il problema non è secondario. Ad essere costantemente nel mirino, infatti, è la sicurezza della popolazione di villaggi come Sderot, costretta a vivere nell'incubo delle sirene e nella preoccupazione per la sorte dei propri figli (un razzo, poco tempo fa, sfiorò una scuola elementare portando i genitori fino alla Knesset in segno di protesta). E il problema, in Israele, è tanto sentito da far pensare sempre più alla possibilità di un attacco militare contro Gaza: parzialmente fallita la pratica delle sanzioni energetiche, secondo il quotidiano arabo di base a Londra "Al-Quds Al-Arabi" il tanto temuto attacco potrebbe avvenire proprio dopo Annapolis, sempre che l'esito della conferenza non cambi le carte in tavola.
Ad ulteriore conferma dell'accresciuta aggressività di Hamas nei confronti di Israele, una dettagliata relazione dei servizi di sicurezza egiziani citata dall'"Associated Press" ha evidenziato come l'Egitto, negli ultimi sei mesi, abbia portato alla luce 60 tunnel volti a facilitare l'ingresso in Israele dei militanti islamici. Lo scopo è semplice: tornare alla vecchia strategia del kamikaze sul suolo israeliano, molto più devastante del lancio di razzi dalla lunga distanza.
Ma il nervosismo in vista di Annapolis si manifesta sempre più anche nei confronti dei "fratelli" di Fatah, già uccisi e torturati in occasione della presa di Gaza dello scorso giugno. Il culmine della tensione si è registrato lunedì, quando nella Striscia di Gaza sono scesi in piazza moltissimi sostenitori di Fatah per il terzo anniversario della morte dello storico leader politico Yasser Arafat. Nel corso della manifestazione, uomini di Hamas hanno aperto il fuoco contro i manifestanti: risultato, sette morti e decine di feriti.
Ma non è tutto. Il giorno dopo Islam Shahwan, portavoce del braccio armato di Hamas, ha dichiarato di aver arrestato oltre 50 manifestanti: "Sono quelli che hanno pianificato e organizzato la manifestazione di ieri, e sono sospettati di essere i responsabili del caos che ne è seguito". Hazem Abu Shanab, esponente di Fatah, afferma invece che Hamas avrebbe arrestato oltre 400 sostenitori dell'ex partito di Arafat nel corso di veri e propri rastrellamenti. Il messaggio di Hamas è chiaro: ci siamo, siamo forti e nella creazione di uno Stato palestinese dovrete vedervela anche con noi.
Ma i palestinesi cosa pensano? Da quando ha preso il controllo della Striscia, tutti i sondaggi concordano nel mettere in evidenza un deciso calo di consenso popolare nei confronti di Hamas. E alla crescente opposizione al partito di Haniyeh, tanto nella Striscia quanto nel West Bank, fa inoltre da contrappeso un incremento del sostegno a Fatah e Abu Mazen: come se, in vista di Annapolis, i palestinesi vedessero una luce di speranza nell'unico possibile interlocutore per il "nemico" israeliano. Non è mancata, a questo proposito, la soddisfazione dei dirigenti di Fatah un tempo operanti a Gaza – e ora di base a Ramallah o in Egitto, dopo essere scappati a giugno alla furia di Hamas –: "Al Jazeera", che di certo non è tra i principali sostenitori di Abu Mazen, ha infatti stimato in 200.000 i partecipanti alla manifestazione in ricordo di Arafat.
Insomma, una decisa inversione di rotta in vista dell'unica opportunità per giungere a qualcosa di simile alla pace – cioè la conferenza di Annapolis –, sostenendo gli unici in grado di parlare con la controparte israeliana – cioè i membri di Fatah. Ma una cosa è certa: Hamas non starà a guardare, mentre Olmert e Abu Mazen si stringeranno la mano.
Tutto bene, insomma? Non proprio. Perché, a starci bene attenti, in tutte queste manovre c'è una grande incognita: Hamas. L'assenza di Hamas, riconosciuta come entità terroristica da Europa e Stati Uniti, al tavolo delle trattative (così come a quello degli accordi preliminari) si potrebbe teoricamente interpretare come un fattore positivo: ma i rischi legati alla sua (inevitabile) esclusione dai negoziati non dovrebbero essere sottovalutati. Se è infatti altamente improbabile che Fatah, Israele e gli Stati Uniti si mettano a discutere con un'organizzazione che reputano terrorista, allo stesso tempo Hamas – che lo scorso giugno ha preso il potere con la forza occupando la Striscia di Gaza – rappresenta sempre di più un grande problema, tanto per la politica quanto per la sicurezza della regione. I leader del movimento armato, evidentemente scontenti dell'isolamento al quale sono sottoposti – tanto da parte di Fatah quanto della comunità internazionale –, stanno infatti incrementando il tasso di violenza contro i nemici storici: Israele, in primis, e Fatah, visto come un partito di traditori che ha deciso di trattare con americani e sionisti.
L'offensiva violenta di Hamas – e dei gruppi jihadisti che le gravitano attorno – contro Israele si materializza da mesi sottoforma dei razzi Qassam. Da quando il gruppo armato ha preso il controllo di Gaza, non c'è stato giorno in cui Israele non sia stato preso di mira dalle rampe di lancio jihadiste. Sull'emergenza razzi, che ha portato le popolazioni d'interi villaggi sull'orlo di uno shock, si è espresso anche il presidente israeliano Peres in occasione del suo discorso di fronte al parlamento turco: riferendosi al contributo della Turchia nella lotta contro gli attacchi terroristici, il presidente ha ricordato che solo se "i razzi saranno fermati e i prigionieri liberati, la popolazione di Gaza conoscerà la calma".
Il problema non è secondario. Ad essere costantemente nel mirino, infatti, è la sicurezza della popolazione di villaggi come Sderot, costretta a vivere nell'incubo delle sirene e nella preoccupazione per la sorte dei propri figli (un razzo, poco tempo fa, sfiorò una scuola elementare portando i genitori fino alla Knesset in segno di protesta). E il problema, in Israele, è tanto sentito da far pensare sempre più alla possibilità di un attacco militare contro Gaza: parzialmente fallita la pratica delle sanzioni energetiche, secondo il quotidiano arabo di base a Londra "Al-Quds Al-Arabi" il tanto temuto attacco potrebbe avvenire proprio dopo Annapolis, sempre che l'esito della conferenza non cambi le carte in tavola.
Ad ulteriore conferma dell'accresciuta aggressività di Hamas nei confronti di Israele, una dettagliata relazione dei servizi di sicurezza egiziani citata dall'"Associated Press" ha evidenziato come l'Egitto, negli ultimi sei mesi, abbia portato alla luce 60 tunnel volti a facilitare l'ingresso in Israele dei militanti islamici. Lo scopo è semplice: tornare alla vecchia strategia del kamikaze sul suolo israeliano, molto più devastante del lancio di razzi dalla lunga distanza.
Ma il nervosismo in vista di Annapolis si manifesta sempre più anche nei confronti dei "fratelli" di Fatah, già uccisi e torturati in occasione della presa di Gaza dello scorso giugno. Il culmine della tensione si è registrato lunedì, quando nella Striscia di Gaza sono scesi in piazza moltissimi sostenitori di Fatah per il terzo anniversario della morte dello storico leader politico Yasser Arafat. Nel corso della manifestazione, uomini di Hamas hanno aperto il fuoco contro i manifestanti: risultato, sette morti e decine di feriti.
Ma non è tutto. Il giorno dopo Islam Shahwan, portavoce del braccio armato di Hamas, ha dichiarato di aver arrestato oltre 50 manifestanti: "Sono quelli che hanno pianificato e organizzato la manifestazione di ieri, e sono sospettati di essere i responsabili del caos che ne è seguito". Hazem Abu Shanab, esponente di Fatah, afferma invece che Hamas avrebbe arrestato oltre 400 sostenitori dell'ex partito di Arafat nel corso di veri e propri rastrellamenti. Il messaggio di Hamas è chiaro: ci siamo, siamo forti e nella creazione di uno Stato palestinese dovrete vedervela anche con noi.
Ma i palestinesi cosa pensano? Da quando ha preso il controllo della Striscia, tutti i sondaggi concordano nel mettere in evidenza un deciso calo di consenso popolare nei confronti di Hamas. E alla crescente opposizione al partito di Haniyeh, tanto nella Striscia quanto nel West Bank, fa inoltre da contrappeso un incremento del sostegno a Fatah e Abu Mazen: come se, in vista di Annapolis, i palestinesi vedessero una luce di speranza nell'unico possibile interlocutore per il "nemico" israeliano. Non è mancata, a questo proposito, la soddisfazione dei dirigenti di Fatah un tempo operanti a Gaza – e ora di base a Ramallah o in Egitto, dopo essere scappati a giugno alla furia di Hamas –: "Al Jazeera", che di certo non è tra i principali sostenitori di Abu Mazen, ha infatti stimato in 200.000 i partecipanti alla manifestazione in ricordo di Arafat.
Insomma, una decisa inversione di rotta in vista dell'unica opportunità per giungere a qualcosa di simile alla pace – cioè la conferenza di Annapolis –, sostenendo gli unici in grado di parlare con la controparte israeliana – cioè i membri di Fatah. Ma una cosa è certa: Hamas non starà a guardare, mentre Olmert e Abu Mazen si stringeranno la mano.
L'Occidentale