08 dicembre 2007

Sulla Birmania è calato il silenzio, ma la repressione continua

La politica internazionale procede per grandi ondate. Tra agosto e settembre, a riempire le vuote giornate che segnano il ritorno al lavoro per gran parte degli occidentali, i media si vestirono di arancione per sostenere la protesta dei monaci birmani contro la giunta militare guidata dal generale Than Shwe. La protesta dei bonzi fu segnata da una violentissima repressione, seguita dallo sdegno di gran parte delle nazioni mondiali: eccezion fatta per Cina e India, a capo di coloro che in Birmania hanno troppi interessi per pensare di rovesciare lo status quo.

L'opposizione cinese in seno alle Nazioni Unite – nonostante gli sforzi dell'inviato Onu Ibrahim Gambari, affiancato ora dall'inviato dell'Ue Piero Fassino – ha bloccato qualsiasi iniziativa utile a salvaguardare il rispetto della libertà e dei diritti umani in Birmania. E i media, giorno dopo giorno, hanno smesso le vesti arancioni per occuparsi di questioni più pressanti e "mediatiche": il conflitto israelo-palestinese, le assurde elezioni russe, il nucleare iraniano e via fino alle beghe nostrane, culminate nella disputa su come accogliere il Dalai Lama in visita in Italia.

Ma in Birmania in molti sono morti – va da sé che il numero preciso dei monaci scomparsi, uccisi e cremati non lo sapremo mai –, e la repressione non accenna a diminuire. Aung San Suu Kyi, leader dell'opposizione e premio Nobel per la pace, è sempre dietro le sbarre della sua casa: con buona pace del finto dialogo inscenato per ingraziarsi la comunità internazionale. Il ritorno allo status quo antecedente le proteste di agosto, così come la severa censura che dalle strade delle città stende i suoi tentacoli fino a internet, non facilita certo la circolazione delle notizie: ma alcune Ong (Organizzazioni Non Governative), insieme a coraggiosi dissidenti (rappresentati da attivi news-blog), qualche notizia riescono a farla filtrare.

Partiamo da una denuncia ufficiale, lanciata da Amnesty International a fine novembre. Secondo la celebre organizzazione per la difesa dei diritti umani, arresti e repressioni da parte della giunta al potere non si sono fermati nonostante le rassicurazioni fornite a Ibrahim Gambari. Nelle carceri birmane si troverebbero 700 attivisti legati alle manifestazioni di agosto e settembre, oltre a 1500 oppositori di vecchia data. Secondo Chaterine Baber, direttrice del Programma Asia, "due mesi dopo la violenta repressione contro manifestanti pacifici gli arresti arbitrari proseguono senza sosta, nel quadro di una sistematica soppressione della libertà d'espressione e associazione, che fa a pugni con il conclamato ritorno alla normalità". Amnesty ricorda poi come a metà novembre, in occasione del quarantesimo summit dell'Asean, anche la Birmania abbia firmato una Carta che impegna gli Stati membri a "promuovere e difendere i diritti umani": eppure nello stesso mese sono stati arrestati venti attivisti impegnati in attività antigovernative (tra le più "violente", la distribuzione di volantini per le strade).

Casi specifici di violazione dei fondamentali diritti democratici emergono poi dalle testimonianze di attivisti sul territorio. A fine novembre Pu Chin Sian Thang è stato arrestato dalle autorità birmane: unica colpa, quella di essere il leader della minoranza etnica Chin. Il figlio, sentito dall’agenzia Mizzima, ha dichiarato che il padre è stato arrestato da due poliziotti alle 8 di mattina, senza che gli fosse fornita alcuna giustificazione.

Ancor più crudele una notizia battuta dalla Reuters il 30 novembre: la giunta birmana ha chiuso i battenti di un monastero di Rangoon, utilizzato come ospedale per malati di Aids. I monaci sono stati espulsi, senza alcun permesso e (ancora una volta) senza alcuna giustificazione. L'azione è stata duramente criticata da Gambari, il quale l'ha bollata come contraria allo spirito del dialogo e della riconciliazione nazionale auspicata da più parti. Ma non saranno dei malati di Aids a fermare la polizia birmana, se è vero che i monaci del monastero erano conosciuti per la loro attività a favore della democrazia.

Più recente è un singolare caso di ritorsione nei confronti dell'attore televisivo Kyaw Thu, legato alle proteste di fine estate. La figlia dell'attore, residente in Australia, convolerà presto a nozze: niente di particolarmente sovversivo, ma la giunta ha vietato a tutti i quotidiani birmani di pubblicare l'annuncio del matrimonio. "Il mio nome non può essere pubblicato in nessuna rivista o quotidiano – ha commentato Thu – e il mio nome non può comparire neppure per annunciare il matrimonio di mia figlia".

Per le strade, poi, Than Shwe non perde occasione di ricordare da che parte stia la forza. Nei giorni scorsi carri armati militari hanno pattugliato le strade di Myit Kyina, nel nord della Birmania: secondo un funzionario della Kachin Independence Army, "forse la giunta vuole mostrarci la sua forza e darci qualche avvertimento". Un avvertimento semplice: dopo mesi di proteste, il manico del coltello è sempre nelle mani della dittatura.

In tutto ciò, la politica internazionale sembra aver perso l'iniziale vigore. La principale novità, in ambito continentale, è la nomina di Piero Fassino come inviato della Ue per la Birmania: Fassino si è dato da fare incontrando il ministro degli Esteri francese Kouchner, volando a New York per parlare con Gambari, unendo la voce europea a quella dell'inviato delle Nazione Unite nel chiedere democrazia, riconciliazione nazionale e libertà. Ma ben poco potranno i due inviati di fronte al muro eretto dalla Cina: insieme al gigante asiatico, anche Laos e Cambogia hanno dichiarato la propria contrarietà alle sanzioni, mentre l'Asean ha annullato un intervento di Gambari (originariamente pensato per illustrare pubblicamente la situazione birmana). I risultati sono sconfortanti: il meglio che la politica sia riuscita a produrre è un documento non vincolante (non essendoci stata l'unanimità all'interno del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) che condanna la repressione della giunta birmana – con 88 voti a favore, 24 contrari e 66 astenuti.

E proprio contro la politica delle parole si stanno muovendo in queste settimane organizzazioni di attivisti democratici laici, che hanno preso il posto dei monaci brutalmente sconfitti con la violenza. L'All Burma Young Monks Union, di base in India, ha organizzato una manifestazione a Nuova Delhi denunciando gli incredibili danni arrecati dalla giunta (e dalla sua condotta) alla religione buddista. E mentre il partito d'opposizione di Aung San Suu Kyi chiama tutti gli oppositori all'unità, un gruppo di attivisti non meglio identificati ha informato Mizzima che dal primo gennaio 2008 partirà una "campagna di non cooperazione": il progetto è quello di spingere quanti più cittadini possibili ad astenersi dal lavoro.

Degli ultimi giorni, tornando in Europa, è infine l'appello lanciato da quattro intellettuali francesi – tra cui Glucksmann e Lévi – a Nicolas Sarkozy: l'idea è che il presidente vada in Birmania e chieda di incontrare Aung San Suu Kyi nell'ambasciata francese. Sarkozy, visti i recenti successi internazionali, deve essere sembrato l'uomo giusto per tentare l'impossibile: ma forse è troppo anche per un iperpresidente.

L'Occidentale