27 luglio 2008

Fallaci dinasty

Il suo “bambino” di carta non l’aveva mollato neanche a Saigon, in quella notte di coprifuoco del 1970 quando da inviata di guerra, sfinita da una giornata di lavoro al fronte e sulla via del ritorno in albergo dove avrebbe incominciato a scrivere, era stata accerchiata da un branco di soldati vietnamiti allupati che volevano stuprarla. Era nello zaino, il suo “bambino” di allora, nastri registrati, taccuini con le interviste fatte ai soldati americani e vietnamiti, foto scattate sul terreno di battaglia. Orrori di cui era testimone e di cui rendeva testimoni anche i lettori italiani dalle pagine dell’Europeo e con il libro “Niente e così sia”. Si difese a calci e pugni, quella notte, ma non c’erano speranze. Forse se si liberava di quello zaino sarebbe riuscita a fuggire e a scamparla anche senza l’intervento di due soldati americani di pattuglia su una jeep. Ma i “bambini” non si abbandonano.

E Oriana Fallaci non ha abbandonato neanche l’ultimo, nato in sua assenza. Esce mercoledì “Un cappello pieno di ciliege” (Rizzoli, 864 pagine, 25 euro), il romanzo postumo che lei preannunciava in “La rabbia e l’orgoglio”. «La vigilia della catastrofe [l’11 settembre 2001], pensavo a ben altro: lavoravo al romanzo che chiamo il-mio-bambino» scrive la prima donna corrispondente di guerra italiana «un bambino molto difficile, molto esigente, la cui gravidanza è durata gran parte della mia vita d’adulta, il cui parto è incominciato grazie alla malattia che mi ucciderà, e il cui primo vagito si udrà non so quando. Forse quando sarò morta».

Il cappello pieno di ciliegie è quello che la sua trisavola Caterina indossa alla fiera di Rosía per farsi riconoscere dal futuro sposo Carlo Fallaci. Da questi antenati toscani prende la rincorsa una cavalcata avvincente che segna le tappe epocali che hanno cambiato il mondo occidentale grossomodo dalla Rivoluzione francese alla Belle Époque. La giornalista di razza e la scrittrice si incontrano ancora una volta sul terreno della storia universale e di quella personale.

Perché il romanzo dattiloscritto sull’inseparabile lettera 32 e affidato al nipote Edoardo Perazzi a New York nel luglio2006, quando sentì che l’Alieno , come chiamava il cancro ai polmoni , la stava portando via, è un’opera fortemente autobiografica su cui si innesta una ramificata e credibile finzione, dove si racconta la saga della famiglia di Oriana Fallaci dal 1773 al 1889. Un’epopea ricostruita dai racconti dei familiari e dalle carte custodite in un baule in soffitta distrutto durante la seconda guerra mondiale, e frutto di anni di ricerche d’archivio in Italia e negli Stati Uniti.

Il viaggio alla ricerca delle sue radici e insieme il testamento letterario di questa scrittrice scomoda, amata e vituperata in ugual misura in vita, è una cronaca familiare che per sua ammissione si è via via trasformata in una «fiaba da ricostruire con la fantasia». La realtà, nelle parole dell’autrice, impercettibilmente inizia a scivolare nell’immaginazione e il vero si unisce all’inventabile poi all’inventato. La scena si popola di nonni, nonne, bisnonni, trisnonni e tutti quei “genitori” di Oriana diventano suoi “figli”. L’idea di fondo del romanzo è che ognuno di noi è anche i propri antenati, ma la Fallaci spinge questa constatazione fino a trasformarla in un potente espediente narrativo, dalla terza persona passa alla prima nei passaggi più drammatici, quelli in cui ravvisa analogie sorprendenti con la propria biografia di discendente.

Come il “mal dolent, anzi molto dolent”come veniva chiamato il cancro in Catalogna e che colpisce Maria Isabel Felipa, madre di Monserrat, trisnonna della madre della Fallaci. Un male perfido e assoluto in cui la scrittrice, tuttavia, riesce a trovare un aspetto positivo: l’opportunità per se stessa di nascere e «vivere questa straordinaria e tremenda avventura che ha nome Esistenza». Senza il “mal dolent”, scrive, Monserrat appena diciottenne non avrebbe mai abbandonato Barcellona per mettersi alla ricerca a Genova del padre, il Grande di Spagna di origini italiane Gerolamo Grimaldi, padre nobile e assente che non riuscirà nemmeno a vedere. Ma sul brigantino Monserrat incontra il nostromo Francesco Launaro, trisnonno materno di Oriana, e da lì incominciano a intrecciarsi i destini che porteranno alla sua nascita. Pazientemente , ma con la passione e le violente e radicali prese di posizione nei confronti delle religioni e dei conflitti di civiltà che ne hanno segnato vita pubblica e privata anche e soprattutto negli ultimi anni di vita, la Fallaci costruisce un affresco storico ed emotivo in cui si mette in gioco come coprotagonista. C’è sempre lei nel nostromo negriero e bestemmiatore che vuole vendicare il padre schiavo per vent’anni dei pirati barbareschi ad Algeri, lei in Giovanni assassino mancato del “traditore” Carlo Alberto, ancora lei nella ribelle Caterina che sfiderà Napoleone, lei in Anastasía, bisnonna paterna, figlia illegittima, ragazza madre, pioniera del Far West e forse tenutaria di un bordello a San Francisco. Lo sfondo temporale delle vicende abbraccia tutta l’Italia rivoluzionaria da Napoleone in poi e si popola di grandi personaggi risorgimentali come Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, gente del vecchio e nuovo mondo.

Come il capostipite Carlo che aveva un grande sogno, piantare la vigna e l’ulivo nella Virginia di Thomas Jefferson. Ma l’America entrerà in scena solo con la spregiudicata bisnonna paterna valdese Anastasía Ferrier che arriva a New York nel 1865 due mesi prima dell’assassinio di Lincoln. Proprio a New York, con Firenze l’altra città del cuore della Fallaci, che lì aveva scavato il suo rifugio nel 1990, dopo il romanzo “Insciallah”, e che lascerà solo per tornare a morire a casa, in Italia, il 15 settembre del 2006.

Giuliana Manganelli
(C) Il Secolo XIX