A pochi giorni dall'uscita del nuovo romanzo postumo, il segretario personale della Fallaci ricorda su "Ticino News" alcuni aneddoti legati alla stesura del libro.
Di solito era di sera. Sul tavolo in cristallo e pieno di macchie della saletta da pranzo attigua alla cucina, come sempre c’era il calice con il Perrier Jouet freddo, poco vicino il posacenere ripieno di decine di mozziconi di sigarilli Matt Sherman, uno non era mai completamente consumato, ancora bruciava il tabacco rimasto.
Tutt’attorno il caos di accendini, carte, appunti, gli evidenziatori, i pennarelli, i ritagli di giornali, le cartellette rosa e azzurre. E due paia di occhiali da vista a lenti enormi con la montatura di plastica, una rossa e una nera con gli strass e la lente d’ingrandimento, rettangolare. Una delle sue tante Olivetti stava sulla sedia a far da peso ai quotidiani impilati ancora da ritagliare. Il riscaldamento fatto riparare da poco mandava un sibilo ogni volta che entrava in funzione. Faceva molto caldo dentro casa. Sempre. Fuori, a New York, invece, si gelava.
Nell’aria il fumo stagnante prendeva un po’ alla gola e agli occhi ma tutto sommato dopo un po’ ci si abituava. C’era anche il sentore di pane abbrustolito passato nel forno elettrico per accompagnare un po’ di formaggio francese di cui era ghiotta. La televisione era accesa sui notiziari che in America non smettono mai di essere trasmessi.
Lei vestiva abitualmente una gonna grigia a pieghe di buona qualità simile a tante altre e indossava una maglia di cachemire beige informe di due taglie più grande, su un maglioncino girocollo di colore intonato. Scarpe piatte. Era smunta, magrissima, esile e delicata, l’avresti buttata a terra con uno starnuto; i capelli erano raccolti dietro la nuca, non era truccata ma il suo vezzo femminile si esprimeva in un paio di anelli preziosi con diamanti e rubini appartenuti alla mamma e, prima di lei, alla nonna. E con le unghie laccate. Non perfettamente, ma dipinte di un bel colore vivo. E col Patou 1000, il suo profumo preferito.
La Fallaci passava dalla cucina al tinello sempre con un’altra sigaretta accesa tra le labbra a fine di una solita, lunghissima, pesante giornata di lavoro. Stava mettendo mano alla traduzione inglese di “La forza della ragione” ed era sfinita. Non lo diceva. Il suo orgoglio e la sua disciplina non glielo permettevano.
Io ero seduto al mio posto a quel tavolo come facevo oramai da settimane e, semplicemente, ero là per darle una mano. O meglio, ero ai suoi ordini e rappresentavo l’interfaccia tra lei e la casa editrice. E, da poco, dopo berciate, insulti e aver chiesto la mia testa ai miei capi più di una volta, stava oramai iniziando a considerare che tutto sommato ero uno dei mali minori che la perseguitavano. Intanto ero a casa sua. Dormivo al piano terra e avevo per me l’appartamento degli ospiti. Generosa senza dubbio. E senza dubbio ospitale. E furba, così ero sempre a disposizione, a portata di mano. Così si stava abituando a me. E io a lei.
Quell’ora della sera, più o meno tra le nove e le dieci era il momento in cui la Fallaci, smetteva i panni della scrittrice, della giornalista, dell’inviata di guerra, della donna importante, del soldato alla macchina per scrivere e si scioglieva in simpatia, battute e compagnia. E cucinava, e ricordava, e chiacchierava, e domandava, e si interessava, e rideva.
Con la complicità di un piatto gustoso e forse troppo piccante, consumato - lei solo bricioline - tra quel caos sospeso sul cristallo, parlava del suo passato, della famiglia e dello zio Bruno, rivelava i retroscena delle interviste più clamorose. Sapeva come catturare l’attenzione, come incuriosire. Forse calcava la mano e arricchiva qualche episodio di particolari che potevano essere inverosimili, ma detti da lei in quel momento diventavano ovviamente indiscutibili, veri; e chi poteva, d’altronde contraddirla?
Tra una battuta e un manicaretto cercava di capire se si sarebbe potuta fidare di me ancora di più. Aveva in serbo una sorpresa. Forse un premio. Un regalo da scartarsi tra nove e le dieci di sera.
Quando decise che poteva fare il passo, iniziò con la sua strategia. La prese alla lontana, seminò con sapienza battute, indizi, frasi e fece in modo d’incuriosirmi fino a che io, un po’ esitando, non glielo domandai : “Signora, … e il suo romanzo?” Tutti sapevano che c’era, che ci stava lavorando da dieci anni; lei l’aveva dichiarato sempre. Aveva dovuto interrompere di scrivere per dedicarsi all’altra missione che dopo l’11 settembre la riportò prepotentemente alla ribalta mediatica. La creatura che “portava in grembo” era al piano di sopra. Un manoscritto di oltre mille pagine era custodito più gelosamente dei suoi brillanti in uno dei closet. Una pila di carta alta così piena di post-it colorati, soprattutto rosa, di appunti attaccati con il nastro adesivo e correzioni da far tremare i polsi e gelare il sangue a qualsiasi redattore, anche il più esperto, che l’avesse mai dovuta affrontare con lei.
Posi dunque la domanda che si aspettava e che voleva ponessi. La ricordo allora far finta di rabbuiarsi, diventare seria e poi esprimere il dubbio con la mimica facciale. Mi stava per concedere un privilegio assoluto. Me lo stava facendo pesare. Era necessaria, e scontata, a quel punto un po’ di coreografia. Aveva già permesso a qualcuno di cui si fidava in maniera completa di leggerlo: a suo nipote Edoardo, a sua sorella Paola, a Gianni Vallardi, forse a Ferruccio de Bortoli e a pochissime altre persone credo. A me però riservava qualcosa di diverso. A un certo punto salì rapida nella sua camera.
Tornata nel tinello fece quello che le vidi poi ripetere diverse volte da quella sera come una specie di rito: si sedette e tenne la doppia risma sulle gambe. Il suo sguardo si vivacizzava allora con un guizzo di contentezza, un bagliore che notavo nei suoi occhi tutt’altro che spenti anche se offuscati dalla malattia. Appoggiava la mano sinistra sulla prima pagina abbastanza logora col titolo scritto a mano e sottolineato, e una delle dita la infilava sotto l’elasticone giallo e lì rimaneva per qualche istante, sospesa; la destra reggeva la sigaretta, la cinquantesima? Poi serrandosela in uno degli angoli delle labbra in una smorfia del viso molto maschile, strizzando un occhio e guardandomi di sghimbescio, con tutte e due le mani liberava i fogli, facendo attenzione che le correzioni non si perdessero, e sceglieva cosa leggere. Il fumo disegnava volute confuse e la cenere si spargeva ovunque, sul tavolo, la gonna, i fogli, la moquette verde.
Serissima, compresa nel suo ruolo di voce recitante, gli occhiali neri calati sul naso, la prima volta iniziò dal Prologo – il romanzo è in un prologo e quattro parti - come si conviene a una vera opera lirica. Le prime righe non potrò mai dimenticarle. Le annotai mentalmente e non sono in grado di citarle con precisione: “Ora che il futuro si è fatto corto, e mi sfugge di mano come la sabbia dentro la clessidra, penso alla mia esistenza e al perché sono nata e cerco le risposte con le quali possa essere giusto morire…” Un incipit da trattenere il fiato. Poi veloci un fiume di parole, rapide, iperboliche, a scansione perfetta impreziosite dalla sua voce roca ma chiara e arricchite dal suo accento anzi dai suoi particolari accenti per illustrare, a noi, quello che avremmo letto di lì in avanti.
L’affresco che si proponeva di narrare, illustrato nel Prologo era grandioso, abbraccia la storia di circa trecento anni dell’Italia con la sua famiglia e i suoi avi come protagonisti nelle varie epoche. Nonne, nonni, bisnonne, bisnonni, trisnonne, trisnonni, arcavole e arcavoli, insomma tutti i suoi genitori Si fonde con il Secolo dei Lumi, la Rivoluzione Francese, con il Risorgimento, arriva alla Resistenza, parte da un piccolo paesino del Chianti, Panzano, e termina sempre in Toscana. Ci sono le guerre, le rivolte, gli amori; c’è morte e speranza; si piange e sorride. La Fallaci diventava mamma dei suoi genitori e progenitori, loro diventavano suoi figli; lei con questo romanzo dava loro la vita che essi avevano dato a lei. Mescolava realtà e fantasia.
“Un cappello pieno di ciliege”. Le piace il titolo?” Mi chiese. “Cilieg-i-e?” “Cilie-ge, senza la “i” e che nessuno s’azzardi a fare la correzione. N-e-s-s-u-n-o. Sono stata chiara? Vi-faccio-volar-via-la-testa-dal-collo-perdiooooo!
Il cappello è quello di un’antica ava, nonna Caterina. Caterina Zani, moglie di Carlo Fallaci”. Di cappelli, Caterina ne possedeva molti, proprio come la Fallaci, e fatti tutti da lei. Aveva il senso degli affari, un gran corredo cucito da sé stessa, era forte e bella coi capelli rossi. Era analfabeta, ma affascinata dalla cultura, accettò di sposare Carlo perché costui possedeva undici libri e perché le insegnasse poi a leggere e a scrivere. Si presentò a lui con quel cappello. Colmo di ciliege.
Il Prologo e le pagine su Caterina e Carlo, il loro matrimonio o le lezioni sull’alfabeto, la nascita e la morte per difterite di Teresa la loro prima figliola, me le rilesse, con gusto, ancora almeno un paio di volte e così fece con un episodio marginale come quello del rogo di un’altra sua bis-bis-bisnonna Ildebranda, la strega, eretica, bruciata perché osò mangiare un cosciotto d’agnello in Quaresima. Sono solo poche righe dedicate a lei ma era affascinata da questa suggestione di fiamme e come dire, arrabbiata, anzi arrabbiatissima per quanto questa antenata aveva subito. Amava moltissimo anche il personaggio della nonna Anastasia (“leggenda vissuta senza un certificato di nascita”) che a sedici anni ebbe un flirt con Edmondo De Amicis, donna dal volto stupendo con occhi fermi e chiarissimi, naso perfetto, e del suo viaggio – o meglio dire avventura - , vero o verosimile, o del tutto falso, nell’America due mesi prima dell’assassino di Lincoln.
Non mi lesse mai tutto il romanzo completo né mai mi permise di toccarne una sola pagina. Leggeva e mi apriva delle finestre. E che scorci mi lasciava intravvedere. Un romanzo sulla verità della vita. Mi rendevo conto che leggeva a me per provare a lei il suono e l’effetto delle parole. Lo faceva sempre anche coi suoi articoli e con la traduzione che stava affrontando. Lo sanno tutti: leggeva e se un sostantivo o un avverbio o un aggettivo, qualsiasi altra parola non scorreva, lo cambiava. Con cura certosina, chirurgica, maniacale. Sofferta. Quando riprendeva un capitolo che avevo già ascoltato, avvertivo, di tanto in tanto, delle differenze rispetto alla volta precedente, questioni di sfumature appunto. Voleva dire che salita nella sua stanza, sorseggiando il tè zuccheratissimo che si preparava proprio prima di ritirarsi, doveva aver provveduto affannosamente, freneticamente.a correggere di nuovo col pennarello nero quanto non la convinceva del tutto e che con me aveva provato. Non è vero dunque che lo aveva abbandonato. Ci lavorava ancora. E da sola. In segreto. E di fretta. Sentiva il tempo sfuggirle via. Mi diceva che doveva controllare le date, le consonanze storiche, approfondire il ritratto di qualche personaggio. Fare verifiche.
Una volta, a sorpresa, mi disse: “Ho il finale tutto qui – e si battè il palmo della mano sulla fronte mentre lo diceva - sono solo 50 righe e non le ho ancora scritte. Quindi senza queste mie ultime frasi codeste mille pagine sono carta straccia; dunque Paolo mi prometta una cosa: che il libro, se lo trova, una volta che il cancro, l’alieno, mi avrà consumata del tutto, lo brucerà. Anzi, no! sa che le dico? lo brucio io. Anzi, no! brucio tutta la casa; anzi, no! che dico? anche io brucio con lei e muoio come la mi’ nonna sul rogo !”. E io rispondevo “sì”, “ni”, “no”. E lei sapeva che era ovviamente “no” perché quel libro lei per prima lo voleva pubblicare. Eccome. Altre volte infatti discuteva puntigliosamente, non solo con me per fortuna, il tipo di carta sulla quale doveva essere stampato, il tipo di carattere da usare e la grandezza dello stesso, il colore della copertina, il prezzo e il titolo.
“E il titolo è meglio questo o “L’arca di Ildebranda” o “I passaggi nel Tempo” ?” Chiedeva come a lasciarti la responsabilità di una scelta così delicata che lei aveva già comunque preso. “Un cappello pieno di ciliege”, apparentemente così poco fallaciano, diverso rispetto a tutti gli altri, e che farà discutere anche lui con quella “i” mancante. E più di una volta l’ho vista passare, anzi davvero accarezzare, con soddisfazione e amore, le dita sulla parolina “Fine” centrata a epigrafe sotto tre asterischi dopo il punto ortografico che chiude il romanzo. Questa trama epica, picaresca, colossale, fantastica e monumentale, un romanzo storico straordinario che profuma di Balzac, di Hemingway e dell’amato Jack London le piaceva, l’inorgogliva e la rendeva felice. Sapeva che ci avrebbe lasciato qualcosa di grande. Sapeva che lei non l’avrebbe mai visto sugli scaffali. Sapeva che questo sarebbe stato il suo vero testamento. Non i tre ultimi volumi, non le invettive, non le polemiche, non i dibattiti, né le interviste a sé stessa. Ma questo. Letteratura. Vera. Quella che di lei avrebbe potuto far dire finalmente senza dubbi, senza esitazioni, come desiderava, come teneva più di ogni altra cosa: “Oriana Fallaci, professione Scrittore”.
Di solito era di sera. Sul tavolo in cristallo e pieno di macchie della saletta da pranzo attigua alla cucina, come sempre c’era il calice con il Perrier Jouet freddo, poco vicino il posacenere ripieno di decine di mozziconi di sigarilli Matt Sherman, uno non era mai completamente consumato, ancora bruciava il tabacco rimasto.
Tutt’attorno il caos di accendini, carte, appunti, gli evidenziatori, i pennarelli, i ritagli di giornali, le cartellette rosa e azzurre. E due paia di occhiali da vista a lenti enormi con la montatura di plastica, una rossa e una nera con gli strass e la lente d’ingrandimento, rettangolare. Una delle sue tante Olivetti stava sulla sedia a far da peso ai quotidiani impilati ancora da ritagliare. Il riscaldamento fatto riparare da poco mandava un sibilo ogni volta che entrava in funzione. Faceva molto caldo dentro casa. Sempre. Fuori, a New York, invece, si gelava.
Nell’aria il fumo stagnante prendeva un po’ alla gola e agli occhi ma tutto sommato dopo un po’ ci si abituava. C’era anche il sentore di pane abbrustolito passato nel forno elettrico per accompagnare un po’ di formaggio francese di cui era ghiotta. La televisione era accesa sui notiziari che in America non smettono mai di essere trasmessi.
Lei vestiva abitualmente una gonna grigia a pieghe di buona qualità simile a tante altre e indossava una maglia di cachemire beige informe di due taglie più grande, su un maglioncino girocollo di colore intonato. Scarpe piatte. Era smunta, magrissima, esile e delicata, l’avresti buttata a terra con uno starnuto; i capelli erano raccolti dietro la nuca, non era truccata ma il suo vezzo femminile si esprimeva in un paio di anelli preziosi con diamanti e rubini appartenuti alla mamma e, prima di lei, alla nonna. E con le unghie laccate. Non perfettamente, ma dipinte di un bel colore vivo. E col Patou 1000, il suo profumo preferito.
La Fallaci passava dalla cucina al tinello sempre con un’altra sigaretta accesa tra le labbra a fine di una solita, lunghissima, pesante giornata di lavoro. Stava mettendo mano alla traduzione inglese di “La forza della ragione” ed era sfinita. Non lo diceva. Il suo orgoglio e la sua disciplina non glielo permettevano.
Io ero seduto al mio posto a quel tavolo come facevo oramai da settimane e, semplicemente, ero là per darle una mano. O meglio, ero ai suoi ordini e rappresentavo l’interfaccia tra lei e la casa editrice. E, da poco, dopo berciate, insulti e aver chiesto la mia testa ai miei capi più di una volta, stava oramai iniziando a considerare che tutto sommato ero uno dei mali minori che la perseguitavano. Intanto ero a casa sua. Dormivo al piano terra e avevo per me l’appartamento degli ospiti. Generosa senza dubbio. E senza dubbio ospitale. E furba, così ero sempre a disposizione, a portata di mano. Così si stava abituando a me. E io a lei.
Quell’ora della sera, più o meno tra le nove e le dieci era il momento in cui la Fallaci, smetteva i panni della scrittrice, della giornalista, dell’inviata di guerra, della donna importante, del soldato alla macchina per scrivere e si scioglieva in simpatia, battute e compagnia. E cucinava, e ricordava, e chiacchierava, e domandava, e si interessava, e rideva.
Con la complicità di un piatto gustoso e forse troppo piccante, consumato - lei solo bricioline - tra quel caos sospeso sul cristallo, parlava del suo passato, della famiglia e dello zio Bruno, rivelava i retroscena delle interviste più clamorose. Sapeva come catturare l’attenzione, come incuriosire. Forse calcava la mano e arricchiva qualche episodio di particolari che potevano essere inverosimili, ma detti da lei in quel momento diventavano ovviamente indiscutibili, veri; e chi poteva, d’altronde contraddirla?
Tra una battuta e un manicaretto cercava di capire se si sarebbe potuta fidare di me ancora di più. Aveva in serbo una sorpresa. Forse un premio. Un regalo da scartarsi tra nove e le dieci di sera.
Quando decise che poteva fare il passo, iniziò con la sua strategia. La prese alla lontana, seminò con sapienza battute, indizi, frasi e fece in modo d’incuriosirmi fino a che io, un po’ esitando, non glielo domandai : “Signora, … e il suo romanzo?” Tutti sapevano che c’era, che ci stava lavorando da dieci anni; lei l’aveva dichiarato sempre. Aveva dovuto interrompere di scrivere per dedicarsi all’altra missione che dopo l’11 settembre la riportò prepotentemente alla ribalta mediatica. La creatura che “portava in grembo” era al piano di sopra. Un manoscritto di oltre mille pagine era custodito più gelosamente dei suoi brillanti in uno dei closet. Una pila di carta alta così piena di post-it colorati, soprattutto rosa, di appunti attaccati con il nastro adesivo e correzioni da far tremare i polsi e gelare il sangue a qualsiasi redattore, anche il più esperto, che l’avesse mai dovuta affrontare con lei.
Posi dunque la domanda che si aspettava e che voleva ponessi. La ricordo allora far finta di rabbuiarsi, diventare seria e poi esprimere il dubbio con la mimica facciale. Mi stava per concedere un privilegio assoluto. Me lo stava facendo pesare. Era necessaria, e scontata, a quel punto un po’ di coreografia. Aveva già permesso a qualcuno di cui si fidava in maniera completa di leggerlo: a suo nipote Edoardo, a sua sorella Paola, a Gianni Vallardi, forse a Ferruccio de Bortoli e a pochissime altre persone credo. A me però riservava qualcosa di diverso. A un certo punto salì rapida nella sua camera.
Tornata nel tinello fece quello che le vidi poi ripetere diverse volte da quella sera come una specie di rito: si sedette e tenne la doppia risma sulle gambe. Il suo sguardo si vivacizzava allora con un guizzo di contentezza, un bagliore che notavo nei suoi occhi tutt’altro che spenti anche se offuscati dalla malattia. Appoggiava la mano sinistra sulla prima pagina abbastanza logora col titolo scritto a mano e sottolineato, e una delle dita la infilava sotto l’elasticone giallo e lì rimaneva per qualche istante, sospesa; la destra reggeva la sigaretta, la cinquantesima? Poi serrandosela in uno degli angoli delle labbra in una smorfia del viso molto maschile, strizzando un occhio e guardandomi di sghimbescio, con tutte e due le mani liberava i fogli, facendo attenzione che le correzioni non si perdessero, e sceglieva cosa leggere. Il fumo disegnava volute confuse e la cenere si spargeva ovunque, sul tavolo, la gonna, i fogli, la moquette verde.
Serissima, compresa nel suo ruolo di voce recitante, gli occhiali neri calati sul naso, la prima volta iniziò dal Prologo – il romanzo è in un prologo e quattro parti - come si conviene a una vera opera lirica. Le prime righe non potrò mai dimenticarle. Le annotai mentalmente e non sono in grado di citarle con precisione: “Ora che il futuro si è fatto corto, e mi sfugge di mano come la sabbia dentro la clessidra, penso alla mia esistenza e al perché sono nata e cerco le risposte con le quali possa essere giusto morire…” Un incipit da trattenere il fiato. Poi veloci un fiume di parole, rapide, iperboliche, a scansione perfetta impreziosite dalla sua voce roca ma chiara e arricchite dal suo accento anzi dai suoi particolari accenti per illustrare, a noi, quello che avremmo letto di lì in avanti.
L’affresco che si proponeva di narrare, illustrato nel Prologo era grandioso, abbraccia la storia di circa trecento anni dell’Italia con la sua famiglia e i suoi avi come protagonisti nelle varie epoche. Nonne, nonni, bisnonne, bisnonni, trisnonne, trisnonni, arcavole e arcavoli, insomma tutti i suoi genitori Si fonde con il Secolo dei Lumi, la Rivoluzione Francese, con il Risorgimento, arriva alla Resistenza, parte da un piccolo paesino del Chianti, Panzano, e termina sempre in Toscana. Ci sono le guerre, le rivolte, gli amori; c’è morte e speranza; si piange e sorride. La Fallaci diventava mamma dei suoi genitori e progenitori, loro diventavano suoi figli; lei con questo romanzo dava loro la vita che essi avevano dato a lei. Mescolava realtà e fantasia.
“Un cappello pieno di ciliege”. Le piace il titolo?” Mi chiese. “Cilieg-i-e?” “Cilie-ge, senza la “i” e che nessuno s’azzardi a fare la correzione. N-e-s-s-u-n-o. Sono stata chiara? Vi-faccio-volar-via-la-testa-dal-collo-perdiooooo!
Il cappello è quello di un’antica ava, nonna Caterina. Caterina Zani, moglie di Carlo Fallaci”. Di cappelli, Caterina ne possedeva molti, proprio come la Fallaci, e fatti tutti da lei. Aveva il senso degli affari, un gran corredo cucito da sé stessa, era forte e bella coi capelli rossi. Era analfabeta, ma affascinata dalla cultura, accettò di sposare Carlo perché costui possedeva undici libri e perché le insegnasse poi a leggere e a scrivere. Si presentò a lui con quel cappello. Colmo di ciliege.
Il Prologo e le pagine su Caterina e Carlo, il loro matrimonio o le lezioni sull’alfabeto, la nascita e la morte per difterite di Teresa la loro prima figliola, me le rilesse, con gusto, ancora almeno un paio di volte e così fece con un episodio marginale come quello del rogo di un’altra sua bis-bis-bisnonna Ildebranda, la strega, eretica, bruciata perché osò mangiare un cosciotto d’agnello in Quaresima. Sono solo poche righe dedicate a lei ma era affascinata da questa suggestione di fiamme e come dire, arrabbiata, anzi arrabbiatissima per quanto questa antenata aveva subito. Amava moltissimo anche il personaggio della nonna Anastasia (“leggenda vissuta senza un certificato di nascita”) che a sedici anni ebbe un flirt con Edmondo De Amicis, donna dal volto stupendo con occhi fermi e chiarissimi, naso perfetto, e del suo viaggio – o meglio dire avventura - , vero o verosimile, o del tutto falso, nell’America due mesi prima dell’assassino di Lincoln.
Non mi lesse mai tutto il romanzo completo né mai mi permise di toccarne una sola pagina. Leggeva e mi apriva delle finestre. E che scorci mi lasciava intravvedere. Un romanzo sulla verità della vita. Mi rendevo conto che leggeva a me per provare a lei il suono e l’effetto delle parole. Lo faceva sempre anche coi suoi articoli e con la traduzione che stava affrontando. Lo sanno tutti: leggeva e se un sostantivo o un avverbio o un aggettivo, qualsiasi altra parola non scorreva, lo cambiava. Con cura certosina, chirurgica, maniacale. Sofferta. Quando riprendeva un capitolo che avevo già ascoltato, avvertivo, di tanto in tanto, delle differenze rispetto alla volta precedente, questioni di sfumature appunto. Voleva dire che salita nella sua stanza, sorseggiando il tè zuccheratissimo che si preparava proprio prima di ritirarsi, doveva aver provveduto affannosamente, freneticamente.a correggere di nuovo col pennarello nero quanto non la convinceva del tutto e che con me aveva provato. Non è vero dunque che lo aveva abbandonato. Ci lavorava ancora. E da sola. In segreto. E di fretta. Sentiva il tempo sfuggirle via. Mi diceva che doveva controllare le date, le consonanze storiche, approfondire il ritratto di qualche personaggio. Fare verifiche.
Una volta, a sorpresa, mi disse: “Ho il finale tutto qui – e si battè il palmo della mano sulla fronte mentre lo diceva - sono solo 50 righe e non le ho ancora scritte. Quindi senza queste mie ultime frasi codeste mille pagine sono carta straccia; dunque Paolo mi prometta una cosa: che il libro, se lo trova, una volta che il cancro, l’alieno, mi avrà consumata del tutto, lo brucerà. Anzi, no! sa che le dico? lo brucio io. Anzi, no! brucio tutta la casa; anzi, no! che dico? anche io brucio con lei e muoio come la mi’ nonna sul rogo !”. E io rispondevo “sì”, “ni”, “no”. E lei sapeva che era ovviamente “no” perché quel libro lei per prima lo voleva pubblicare. Eccome. Altre volte infatti discuteva puntigliosamente, non solo con me per fortuna, il tipo di carta sulla quale doveva essere stampato, il tipo di carattere da usare e la grandezza dello stesso, il colore della copertina, il prezzo e il titolo.
“E il titolo è meglio questo o “L’arca di Ildebranda” o “I passaggi nel Tempo” ?” Chiedeva come a lasciarti la responsabilità di una scelta così delicata che lei aveva già comunque preso. “Un cappello pieno di ciliege”, apparentemente così poco fallaciano, diverso rispetto a tutti gli altri, e che farà discutere anche lui con quella “i” mancante. E più di una volta l’ho vista passare, anzi davvero accarezzare, con soddisfazione e amore, le dita sulla parolina “Fine” centrata a epigrafe sotto tre asterischi dopo il punto ortografico che chiude il romanzo. Questa trama epica, picaresca, colossale, fantastica e monumentale, un romanzo storico straordinario che profuma di Balzac, di Hemingway e dell’amato Jack London le piaceva, l’inorgogliva e la rendeva felice. Sapeva che ci avrebbe lasciato qualcosa di grande. Sapeva che lei non l’avrebbe mai visto sugli scaffali. Sapeva che questo sarebbe stato il suo vero testamento. Non i tre ultimi volumi, non le invettive, non le polemiche, non i dibattiti, né le interviste a sé stessa. Ma questo. Letteratura. Vera. Quella che di lei avrebbe potuto far dire finalmente senza dubbi, senza esitazioni, come desiderava, come teneva più di ogni altra cosa: “Oriana Fallaci, professione Scrittore”.
Paolo Klun
(C) Ticino News
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