Pochi giorni dopo il ritorno in patria dei corpi di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, Gilad Shalit – il soldato israeliano rapito a Gaza nell’estate del 2006 – torna al centro della scena. Ottenuti i corpi dei militari morti durante la seconda guerra del Libano, ora la liberazione di Shalit è per Israele un impegno irrinunciabile. Irrinunciabile e gravoso, reso ancor più complicato dalla plateale vittoria di Hezbollah nelle trattative per il rilascio di Regev e Goldwasser.
Del resto era chiaro fin da subito che i negoziati con Hezbollah avrebbero messo in seria difficoltà le trattative per giungere al rilascio di Shalit. E sabato Hamas lo ha confermato, annunciando la sospensione dei colloqui con Israele per alzare la posta in gioco a fronte della debolezza dell’avversario. Nel corso di una manifestazione nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh ha assicurato alla folla che Hamas non cederà di un millimetro nelle trattative, insistendo nel richiedere la liberazione di svariati ergastolani detenuti nelle prigioni israeliane. Haniyeh – che è parso particolarmente deciso – ha poi chiesto al ministro dell’Interno Said Sayam di fornire un passaporto diplomatico a Samir Kuntar, il sanguinario terrorista rilasciato la scorsa settimana nelle mani di Hezbollah in cambio dei corpi di Regev e Goldwasser.
Israele si trova dunque in una posizione di profonda debolezza. Il patto non scritto con l’esercito nazionale, secondo il quale tutti gli ostaggi (vivi o morti) saranno riportati in patria, rende la liberazione di Shalit un imperativo assoluto. Ma a disarmare Tel Aviv è quello che Israele è disposto a concedere per portare a casa i suoi ragazzi: nel caso dell’ultima trattativa con Hezbollah, si è trattato di un cedimento su tutta la linea che ora Hamas intende replicare sul fronte Gilad Shalit. Il premier Olmert e il ministro della Difesa Barak, comunque, non hanno dubbi: il soldato tornerà in Israele. Uscito dalla riunione dei ministri della domenica, Olmert ha comunicato di aver “telefonato alla famiglia di Shalit” e di aver “promesso che faremo tutto il possibile per portare a casa Gilad Shalit vivo, sano e il più presto possibile”. Sulla stessa linea il ministro Barak, che ha parlato di “obbligo morale” e ha poi proposto il silenzio stampa per condurre al meglio le trattative lontano dai riflettori.
Ad oggi, comunque, le trattative appaiono ferme e intricate. Nella riunione domenicale il governo israeliano ha optato per una maggior flessibilità nei negoziati, mentre una delegazione di Hamas dovrebbe presto volare al Cairo per riallacciare il dialogo interrotto. Le posizioni restano comunque lontane: Israele ha ufficialmente accettato di liberare solo 71 dei moltissimi prigionieri proposti da Hamas, ma senza il rilascio di pericolosi terroristi difficilmente la trattativa potrà andare in porto. La speranza israeliana, in questo senso, è che l’Egitto possa indurre Hamas ad abbassare le richieste: il recente scambio di prigionieri con Hezbollah, però, non promette niente di buono. Se questi sono i fatti accertati, sulla stampa mediorientale non mancano poi supposizioni e retroscena: secondo il quotidiano “Al-Bayan” (Emirati Arabi Uniti), Israele sarebbe persino disposto a liberare Barguti – il più celebre e carismatico detenuto di Fatah nelle carceri israeliane – insieme a 300 detenuti di Hamas. Numeri da capogiro, forse più vicini alla fantapolitica che alla realtà.
Un capitolo a parte nelle estenuanti trattative per Shalit merita la questione dei mediatori. A gestire i colloqui tra Hamas e Israele è sempre stato l’Egitto di Mubarak: ed è proprio al Cairo che le delegazioni di Gaza e Tel Aviv dovrebbero tornare a parlare nei prossimi giorni. La scorsa settimana, però, diversi esponenti di Hamas hanno espresso disappunto per il comportamento egiziano nelle trattative, fino ad auspicare che la Germania possa subentrare al Cairo: gli egiziani, stando alle dichiarazioni di Hamas raccolte dal “Jerusalem Post”, sarebbero troppo deboli per imporre le ragioni palestinesi al tavolo con Israele. Da qui la carta tedesca, che in passato sarebbe risultata vincente negli scambi di prigionieri tra Israele ed Hezbollah: da Berlino, nessun commento.
Ma come mediatore per la liberazione di Shalit si è proposto perfino che il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, fresco vincitore degli scambi tra Israele ed Hezbollah. Una proposta – annunciata venerdì sera da “Channel 2” – che sa di ulteriore provocazione da parte del nemico giurato di Tel Aviv: Israele, ovviamente, ha posto il veto, anche per evitare di accrescere ulteriormente il carisma di Hezbollah e del suo leader nel mondo arabo. Ultimo a proporsi indirettamente come mediatore è stato infine l’ex presidente americano Jimmy Carter, che ha incontrato esponenti di Hamas in un recente viaggio in Medio Oriente: per mezzo del suo consigliere Robert Pastor, Carter ha proposto la liberazione di svariati politici di Hamas per accelerare il corso delle trattative. Niente che Israele, con o senza Carter, non stia valutando da tempo con una apposita commissione guidata dal vice premier Ramon.
Fin qui politica e diplomazia. A livello sociale, invece, Israele è pervaso da emozioni contrastanti: da un lato c’è la rabbia per le feste di giubilo tributate da Hezbollah ai terroristi rilasciati dalle carceri israeliane, con il timore che simili scene possano presto ripetersi per Gilad Shalit; dall’altro c’è la consapevolezza di dover fare tutto il possibile per liberare un ragazzo israeliano ostaggio dei terroristi dall’estate del 2006. Il punto cruciale, anche a livello dell’opinione pubblica, resta chiaro: fin dove è giusto spingersi per riavere un soldato rapito? Una risposta univoca non esiste: secondo lo storico Benny Morris, ad esempio, la pratica delle trattative è sbagliata in quanto nell’Israele di Ben Gurion “la collettività, l’ideologia, lo spirito di sacrificio contavano molto di più che non i singoli individui”. Secondo lo scrittore Amos Oz, invece, la questione non si pone dal momento che la trattativa rappresenta “un obbligo morale, è parte integrante del contratto tra la società ed i giovani soldati che danno la vita per essa”: Israele ha sempre negoziato, dice Oz, e continuerà a farlo. Vedremo se gli sviluppi del caso Shalit gli daranno ragione.
Del resto era chiaro fin da subito che i negoziati con Hezbollah avrebbero messo in seria difficoltà le trattative per giungere al rilascio di Shalit. E sabato Hamas lo ha confermato, annunciando la sospensione dei colloqui con Israele per alzare la posta in gioco a fronte della debolezza dell’avversario. Nel corso di una manifestazione nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh ha assicurato alla folla che Hamas non cederà di un millimetro nelle trattative, insistendo nel richiedere la liberazione di svariati ergastolani detenuti nelle prigioni israeliane. Haniyeh – che è parso particolarmente deciso – ha poi chiesto al ministro dell’Interno Said Sayam di fornire un passaporto diplomatico a Samir Kuntar, il sanguinario terrorista rilasciato la scorsa settimana nelle mani di Hezbollah in cambio dei corpi di Regev e Goldwasser.
Israele si trova dunque in una posizione di profonda debolezza. Il patto non scritto con l’esercito nazionale, secondo il quale tutti gli ostaggi (vivi o morti) saranno riportati in patria, rende la liberazione di Shalit un imperativo assoluto. Ma a disarmare Tel Aviv è quello che Israele è disposto a concedere per portare a casa i suoi ragazzi: nel caso dell’ultima trattativa con Hezbollah, si è trattato di un cedimento su tutta la linea che ora Hamas intende replicare sul fronte Gilad Shalit. Il premier Olmert e il ministro della Difesa Barak, comunque, non hanno dubbi: il soldato tornerà in Israele. Uscito dalla riunione dei ministri della domenica, Olmert ha comunicato di aver “telefonato alla famiglia di Shalit” e di aver “promesso che faremo tutto il possibile per portare a casa Gilad Shalit vivo, sano e il più presto possibile”. Sulla stessa linea il ministro Barak, che ha parlato di “obbligo morale” e ha poi proposto il silenzio stampa per condurre al meglio le trattative lontano dai riflettori.
Ad oggi, comunque, le trattative appaiono ferme e intricate. Nella riunione domenicale il governo israeliano ha optato per una maggior flessibilità nei negoziati, mentre una delegazione di Hamas dovrebbe presto volare al Cairo per riallacciare il dialogo interrotto. Le posizioni restano comunque lontane: Israele ha ufficialmente accettato di liberare solo 71 dei moltissimi prigionieri proposti da Hamas, ma senza il rilascio di pericolosi terroristi difficilmente la trattativa potrà andare in porto. La speranza israeliana, in questo senso, è che l’Egitto possa indurre Hamas ad abbassare le richieste: il recente scambio di prigionieri con Hezbollah, però, non promette niente di buono. Se questi sono i fatti accertati, sulla stampa mediorientale non mancano poi supposizioni e retroscena: secondo il quotidiano “Al-Bayan” (Emirati Arabi Uniti), Israele sarebbe persino disposto a liberare Barguti – il più celebre e carismatico detenuto di Fatah nelle carceri israeliane – insieme a 300 detenuti di Hamas. Numeri da capogiro, forse più vicini alla fantapolitica che alla realtà.
Un capitolo a parte nelle estenuanti trattative per Shalit merita la questione dei mediatori. A gestire i colloqui tra Hamas e Israele è sempre stato l’Egitto di Mubarak: ed è proprio al Cairo che le delegazioni di Gaza e Tel Aviv dovrebbero tornare a parlare nei prossimi giorni. La scorsa settimana, però, diversi esponenti di Hamas hanno espresso disappunto per il comportamento egiziano nelle trattative, fino ad auspicare che la Germania possa subentrare al Cairo: gli egiziani, stando alle dichiarazioni di Hamas raccolte dal “Jerusalem Post”, sarebbero troppo deboli per imporre le ragioni palestinesi al tavolo con Israele. Da qui la carta tedesca, che in passato sarebbe risultata vincente negli scambi di prigionieri tra Israele ed Hezbollah: da Berlino, nessun commento.
Ma come mediatore per la liberazione di Shalit si è proposto perfino che il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, fresco vincitore degli scambi tra Israele ed Hezbollah. Una proposta – annunciata venerdì sera da “Channel 2” – che sa di ulteriore provocazione da parte del nemico giurato di Tel Aviv: Israele, ovviamente, ha posto il veto, anche per evitare di accrescere ulteriormente il carisma di Hezbollah e del suo leader nel mondo arabo. Ultimo a proporsi indirettamente come mediatore è stato infine l’ex presidente americano Jimmy Carter, che ha incontrato esponenti di Hamas in un recente viaggio in Medio Oriente: per mezzo del suo consigliere Robert Pastor, Carter ha proposto la liberazione di svariati politici di Hamas per accelerare il corso delle trattative. Niente che Israele, con o senza Carter, non stia valutando da tempo con una apposita commissione guidata dal vice premier Ramon.
Fin qui politica e diplomazia. A livello sociale, invece, Israele è pervaso da emozioni contrastanti: da un lato c’è la rabbia per le feste di giubilo tributate da Hezbollah ai terroristi rilasciati dalle carceri israeliane, con il timore che simili scene possano presto ripetersi per Gilad Shalit; dall’altro c’è la consapevolezza di dover fare tutto il possibile per liberare un ragazzo israeliano ostaggio dei terroristi dall’estate del 2006. Il punto cruciale, anche a livello dell’opinione pubblica, resta chiaro: fin dove è giusto spingersi per riavere un soldato rapito? Una risposta univoca non esiste: secondo lo storico Benny Morris, ad esempio, la pratica delle trattative è sbagliata in quanto nell’Israele di Ben Gurion “la collettività, l’ideologia, lo spirito di sacrificio contavano molto di più che non i singoli individui”. Secondo lo scrittore Amos Oz, invece, la questione non si pone dal momento che la trattativa rappresenta “un obbligo morale, è parte integrante del contratto tra la società ed i giovani soldati che danno la vita per essa”: Israele ha sempre negoziato, dice Oz, e continuerà a farlo. Vedremo se gli sviluppi del caso Shalit gli daranno ragione.
L'Occidentale