È "una saga", si specifica in copertina: e sarebbe davvero difficile immaginare definizioni diverse. Il lettore si trova immerso in un racconto lungo, tumultuoso, a tratti perfino opprimente, il cui corso si ramifica senza un ordine che appaia deliberato o prevedibile, e nel quale le digressioni sono tali e tante da diventare una regola e un connotato di stile.
Prendendo fiato fra l'uno e l'altro episodio di questo resoconto ultrasecolare (esso si svolge infatti tra il 1773 e il 1889), l'autrice per prima avverte la sensazione di "riaffogare nell'insensato guazzabuglio che ha nome Storia". Se fosse vissuta più a lungo, è verosimile che la Fallaci avrebbe esteso la sua testimonianza fino a giorni più attuali. E c'è da pensare che, nelle sue intenzioni quest'opera - che rappresenta un frammento incompiuto, benché molto ampio - volesse racchiudere il significato di un'esistenza, esplorata fin dalle più remote radici.
È questa l'ambizione che si respira di pagina in pagina: e d'altra parte il proposito di stare scrivendo qualcosa di eccezionale si ritrova in molti altri testi dell'autrice toscana. Questa volta quel proposito è più invadente del solito, e non a caso. Ogni fatto, anche minimo, che si affaccia nella "saga", diventa il capitolo di un'autobiografia personale.
Oriana si specchia di volta in volta nella Toscana granducale, nell'epopea napoleonica (come essa venne vissuta dagli italiani dell'epoca), negli eventi del Risorgimento. Poiché su ciascuno di questi scenari si è esibito un suo antenato, lei ne racconta le gesta: ragion per cui è consigliabile procedere nella lettura sempre con l'occhio rivolto all'apposito albero genealogico. Ma, ciò che più conta, ogni progenitore di cui si rievoca l'operato rappresenta una sorta di anticipazione biologica della scrittrice. Quasi non fosse una realtà innegabile, questo dato di discendenza viene da lei ribadito con estrema energia: "Ciascuno di noi nasce dall'uovo nel quale si sono uniti i cromosomi del padre e della madre, a loro volta nati da uova nelle quali si erano riuniti i cromosomi dei loro genitori".
Carlo Fallaci e sua moglie Caterina Zani, che vivono sullo scadere del Settecento nella campagna toscana, sono gli "arcinonni" dai quali la scrittrice ha ereditato, "per li rami" la propria fiorentinità, con relativa schiettezza polemica e, quando occorre, con sacrosanta aggressività. Non fu infatti Caterina a gettarsi ("benché incinta", rivela Oriana, "del mio trisnonno paterno, Donato") contro la carrozza di Napoleone entrato a Firenze nel 1796, urlandogli in pieno volto: "Uccellaccio rapace"?
E non appartengono a una immaginazione parodistica che la Fallaci riconoscerebbe sua il soprannome "Nappa" affibbiato dai toscani del tempo all'Imperatore dei francesi, e quello di "Nuvoloni" ai suoi sudditi e collaboratori, avvezzi ad affermare la loro legge con un "incipit" perentorio: "Nous voulons"? Una variante picaresca di un pugnace spirito di avventura tipicamente toscano si riscontra in un altro antenato - per parte di madre, stavolta - che si chiama Francesco Launaro, è livornese di nascita e marinaio di mestiere. Suo padre è stato fatto schiavo da un equipaggio di pirati islamici, e lui ha covato in cuor suo la vendetta: finirà per sgozzare, in Algeri, ben venti arabi.
Con un altro sotto-ramo della famiglia (sempre di parte materna), quello dei Cantini, siamo in pieno clima pre-unitario. Dopo aver militato in mezza Europa nelle file napoleoniche, un "arcinonno", Giovanni Cantini appunto, si avvicina ai più fervidi ideali patriottici sulla scia di Mazzini e della sua "Giovine Italia". Ma poi il contrasto fra lo stesso Mazzini e Filippo Buonarroti - una di quelle tipiche "rotture a sinistra" che si ripresentano nei secoli - gli procura un profondo disinganno.
"Peccato", chiosa la scrittrice, "che a fianco dei monumenti al Milite Ignoto le piazze di questa nostra terra non offrano mai un monumento al Milite Deluso". Parole che attualizzano, in una chiave giornalistica che molto somiglia alla Fallaci, le remote pulsioni di un capostipite. A Giovanni Cantini, la scrittrice si sente vicinissima, fino a trasfigurare se stessa in chiave ottocentesca. Oriana avverte "la memoria racchiusa nei cromosomi che mi vengono da lui, il ricordo di quando una parte di me esisteva attraverso di lui". In una parola: "Ero lui".
La dipendenza genetica della moderna Fallaci dai suoi ascendenti è sempre ribadita con commozione: "Cari, sventurati pietosi arcinonni di cui mi porto addosso miserie e cromosomi: vorrei abbracciarli". Essi danno un senso "al mio arduo passaggio nel tempo". Un figlio di Giovanni, Giovanni Battista detto Giobatta, s'incontrò con Giuseppe Garibaldi il 24 ottobre del 1848.
Fu, quella, "una fatale mattina", commenta
L'argomento "Oriana e i suoi parenti" è inesauribile. S'incontra, con l'avanzare delle pagine, un'altra bisnonna di parte paterna, Anastasìa, che va in America. È il momento della guerra di secessione. Lei assiste all'assassinio di Abramo Lincoln. La descrizione di New York 1865 è viva, prolissa e un po' fiabesca, con qualche goccia di nostalgia "storica". Ma, in fondo tutto il libro è così: un colorito reportage, lungo i secoli, d'una giornalista di talento, che si sente al centro del mondo.
Nello Ajello
(C) La Repubblica
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