Dimentichiamo per un attimo l’11 settembre e quello che ne seguì. Dimentichiamo la donna furente che si prese il titolo di paladina dell’Occidente contro le minacce non solo terroristiche ma anche culturali di un islamismo incalzante; la scrittrice che con l’acume impietoso proprio dei pensatori liberi coniò il termine Eurabia e frantumò brutalmente alcuni tabù sulla convivenza. Rewind. Andiamo indietro nel tempo, ma non troppo. Non all’epoca della grande giornalista in Vietnam e sugli altri fronti caldi del pianeta, dell’autrice di memorabili reportage per l’Europeo ripresi da tutte le testate internazionali; o della donna che raccontò l’ossessivo legame politico-sentimentale con Alessandro Panagulis nell’epico ritratto di Un uomo; o della star di Lettera a un bambino mai nato che lacerò e commosse il mondo con una storia intimamente femminile.
C’è un periodo nella vita di Oriana Fallaci rimasto per sua volontà nella penombra dopo i decenni da ruggente protagonista. 1991: Oriana torna a New York a conclusione dell’ennesima prova di inviato di guerra, il conflitto nel Golfo scatenato dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Malgrado l’età non più verde, era salita su un aereo americano descrivendo per il Corriere una missione da brivido. Una cosa tipicamente da Oriana. Già 24 anni prima, in Niente e così sia, aveva raccontato con sgomento la sua esperienza in un raid al napalm per stanare i vietcong. Rientrata in America, la Fallaci scopre di essere malata di cancro. Lei lo annuncia l’anno seguente con clamore al Washington Post mostrando la solita tempra e un sentimento altalenante («Odio questo alieno che attacca la mia vita, vorrei sputargli in faccia, strangolarlo, distruggerlo. Ma sento che sono finita»). Rilascia, quindi un’intervista sulla carriera e sulla malattia a Gino Nebiolo per la Rai. Poi scompare. «Ma che si sa di Oriana? Dov’è finita la Fallaci?», erano le domande ricorrenti negli anni Novanta dentro le redazioni e tra i suoi cultori.
Oriana, dopo una vita sotto i riflettori, star tra le star, si era “garboizzata”. Niente piu articoli sui giornali, niente piu dichiarazioni. Rinchiusa nella sua casa sulla 61esima a studiare, esaminare documenti, fare ricerche, scrivere. E così anche nei periodi che trascorreva in Italia, nell’amato casale di Greve in Chianti. Andava a rovistare tra gli archivi, i mastri anagrafici. Ancora di più: lasciata l’attualità, presa da un fervore storico, cominciava a consultare i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum delle parrocchie. Che le era preso all’Oriana? Che le era saltato in mente? Di raccontare la storia della sua famiglia, di scoprire e mettere alla luce i personaggi impavidi, estrosi, indomiti che l’avevano preceduta e forgiata. Ed ecco il monumentale Un cappello pieno di ciliege (864 pagine) che la Rizzoli, editore di tutti i libri della scrittrice (tranne il primo) lancia il 30 luglio, giusto in tempo per mettersi in valigia una saga da gustare nelle vacanze.
Un prologo e quattro parti che possono essere considerati libri compiuti a sé perché ciascuno riguarda la famiglia di uno dei quattro nonni della scrittrice. Una cavalcata storica che parte da metà del Settecento, mentre in Europa si respirano i fermenti dell’Illuminismo e si prepara aria di Rivoluzioni, e si conclude nel 1889, anno di morte di Anastasìa, bisnonna dell’autrice, il personaggio più avventuroso del libro, donna autonoma, ribelle, coraggiosa che approda e si afferma in America. Ma il fulcro della vicenda è la Toscana, è il Chianti, è Panzano, “quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena” che due secoli e mezzo fa era una terra di contadini poveri ma dignitosi. Una terra che già serbava, però, il tesoro di un’agricoltura vinicola invidiata nel resto del mondo. Ed è così che la storia sin dall’inizio sfiora la Storia con la “s” maiuscola: nientemeno che Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza americana, possidente terriero in Virginia e appassionato agronomo. Jefferson propone al commerciante fiorentino Filippo Mazzei, suo amico, di impiantare oltreoceano un’azienda per la coltivazione della vite e dell’ulivo, chiedendogli di portare con sé una decina di contadini. Tra questi si offre per la spedizione Carlo Fallaci, secondogenito di Luca, mezzadro che nel podere di Vitigliano di Sotto lavorava per i Da Verrazzano, discendenti dell’esploratore che scoprì il fiume Hudson e la baia di New York.
Il microcosmo chiantigiano si confronta così con i vastissimi orizzonti del Nuovo Mondo ma non era ancora il tempo dell’America per i Fallaci: Carlo, biondo con gli occhi azzurri, proprio come l’Oriana, cede al suo carattere di toscanaccio orgoglioso: basta un disguido nel luogo dell’appuntamento per la partenza e decide di tornare al paese. «Nel 1773… corsi il rischio di non nascere», scrive Oriana nell’incipit. Perché Carlo è il primo tra gli “arcavoli” ritrovati in cui lei individua quei cromosomi di libertà e di ribellione che le appartenevano. Sarà così anche, e certamente di più, per l’indomita moglie di Carlo, la senese Caterina Zani (il titolo del libro è preso dal cappello da lei indossato nel primo incontro con il futuro marito) che Oriana fa scagliare, incinta di tre mesi, contro l’oppressore Napoleone in passerella a Firenze sulla carrozza degli Asburgo Lorena: «Accident’a te e alla troia che t’ha partorito! Che statue sei venuto a rubarci, che guerre sei venuto a portarci, uccellaccio rapace?». Una visita che la scrittrice associa, per gli onori tributati, a quella cui lei stessa assistette di Hitler e Mussolini a Firenze. Mentre la ribellione all’invasore rimanda alla lotta partigiana che vide il padre di Oriana in prima linea e lei coinvolta come staffetta.
Ed ecco che Oriana rivive, nel secondo libro, anche in Montserrat, la spagnola che per le nozze esibisce sulla parrucca un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta, in omaggio allo sposo Francesco Launaro, marinaio di lungo corso che deve vendicare la morte del padre ucciso da crudeli pirati algerini; o, nel terzo libro, in Giovan Battista (detto Giobatta) Cantini, attivista politico anarchico. E poi, nel quarto, nella bellissima Anastasìa, repubblicana che ha una figlia da un aristocratico piemontese rimasto per sempre l’Innominato, la lascia in un orfanotrofio per andare in America dove rischia di finire sposata a un mormone nello Utah e poi arriva a San Francisco dove apre (probabilmente) un redditizio bordello. Quando torna in Italia ritrova la figlia e la vicenda acquista un sapore di feuilleton per un finale da film. Ma sono una cinquantina i personaggi principali della saga: cinque generazioni unite dagli oggetti riposti in una cassapanca del XVI secolo appartenuta a un’altra antenata, Ildebranda, accusata di eresia e bruciata dall’Inquisizione perché cucinava l’agnello in tempo di Quaresima («la mia antenata strega», amava vantarsi Oriana).
In quella cassapanca, che sarebbe andata in fumo nei bombardamenti su Firenze del 1944, l’Oriana bambina aveva trovato, tra l’altro, un abbaco e un abbecedario del Settecento, la lettera di un prozio arruolato da Napoleone e poi morto nella campagna di Russia, una federa che riportava una scritta preziosa, un paio di occhiali, una copia di un libro del Beccaria. Altri oggetti che le erano rimasti: un liuto senza corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi dello Stato Pontificio e un vecchio orologio con i rintocchi di Westminster. Ma soprattutto insieme con questa Spoon River toscana c’erano le voci dei genitori Edoardo e Tosca, «divertita e ironica quella di lui», scrive nel prologo la Fallaci, «sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia». Ed ecco che da questi pochi indizi, dai flebili ricordi, comincia la ricerca frenetica dei luoghi, delle date, delle conferme. Materiale per formare un sostrato storico sopra il quale i grandi romanzieri scatenano la fantasia. «Fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile e all’inventato…». E la Fallaci mette al servizio di caratteri e situazioni la sua ammaliante scrittura passionale, arricchita da un sapore ironico e popolaresco: in fondo si tratta di un pezzo di storia d’Italia fatta da povera gente, per lo più indigenti e analfabeti.
«Mia zia è stata sempre affascinata dai racconti della famiglia», spiega Edoardo Perazzi, erede testamentario della scrittrice, il nipote che l’ha accompagnata fino alla morte. «Quando passavamo le estati nella casa del Chianti aveva il quaderno degli appunti sempre pronto per raccogliere ricordi, prendeva appunti non solo con i nonni ma anche con lo zio Bruno, giornalista di Epoca e del Corriere, e con altri parenti. Era la stessa ansia di trascrivere, per fare un esempio, lo struggente diario trovato a un vietcong morto in battaglia, finito poi integralmente in un capitolo di Niente e così sia. Eppure soltanto una decina di anni fa ci rendemmo conto che questo materiale stava per diventare un nuovo libro». Ma perché la storia si conclude nel 1889? «A dire il vero lei aveva cominciato a scrivere dal Novecento, inizialmente la saga si sarebbe dovuta fermare al ’44, alla cacciata dei nazisti da Firenze. Esistono molti appunti e un abbozzo della prima stesura. Ma poi le sembrò che quelle vicende vissute personalmente e raccontate un po’ in tutti i suoi libri, in questo caso intralciassero lo spirito romanzesco del libro. E si tuffò nel passato. Il materiale di ricerca accumulato per costruire questa saga è portentoso e spero che un giorno possa essere conservato in un fondo e utilizzato dal pubblico.
Dal costo del biglietto delle carovane del Far West agli eventi meteorologici di Radda e Greve in Chianti, Oriana è stata puntigliosa e sfiancante per chi le ha dato una mano. Ho trovato l’appunto di uno studioso dell’università di Boston che, esausto per la ricerca del nome di una certa nave che faceva la spola tra Plymouth e Livorno, la supplica di accontentarsi di quanto aveva trovato. Avrebbe voluto andare ancora più indietro nel tempo, Oriana: arrivare all’antenata bruciata o all’epoca in cui, secondo quanto detto da alcuni personaggi, il seme dei Fallaci era emigrato in Chianti dalla Firenze dell’epoca di Boccaccio, assediata dalla peste. Ma non aveva trovato documentazione di quei secoli e così è partita dalle prime notizie sicure». Perazzi ha lavorato con la redazione della Rizzoli per riportare nel testo le correzioni della quarta parte e ricostruire l’albero genealogico della famiglia allargata fallaciana che appare nei risguardi all’inizio del volume, mentre in coda si possono leggere le note del nipote e dell’editore in cui si evidenziano gli interventi e le piccole incoerenze non corrette. «Abbiamo mantenuto le imperfezioni da opera incompiuta per rispetto dell’autrice. Ma questa appendice, che comprende alcune pagine dattiloscritte con la scrittura di Oriana, sarà un altro motivo di interesse per i suoi ammiratori».
Ed eccoci nuovamente all’11 settembre. Oriana è sconvolta dall’attentato alle Torri, decide di rompere il suo silenzio decennale con un clamoroso articolo apparso il 29 settembre 2001 sul Corriere, intitolato La Rabbia e l’Orgoglio. Chiude la sua violenta invettiva con questa frase: «Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ora basta. Punto e basta». Ma poi non ce la fa a mantenere l’impegno e Un cappello pieno di ciliege non sarà più ripreso. «Superato il trauma mi dissi: devo dimenticare ciò che è successo e succede. Devo occuparmi di lui e basta. Sennò lo abortisco. Così stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano la pagina del giorno prima, cercai di riportare la mente ai miei personaggi. Creature di un mondo lontano, di un’epoca in cui gli aerei e i grattacieli non esistevan davvero. Ma durò poco. Il puzzo della morte entrava dalle finestre». La Rabbia e l’Orgoglio divenne così un libro, un successo da oltre un milione di copie. «Oriana si portò fino alla morte il cruccio di non aver messo la parola fine a quest’opera», continua Perazzi. «E forse non se lo perdonava. Nell’agosto 2006, nell’ultimo mese di vita, mi dava disposizioni di ogni genere ma non mi parlava del romanzo. Così un giorno presi coraggio. “Senti Oriana, io mi ritrovo anche questo tuo bambino (i suoi libri lei li chiamava così) ma cosa devo farne: pubblicarlo, chiuderlo in banca, bruciarlo?”. “Oh, ma che tu sei rincitrullito?!? Certo che lo devi pubblicare. Controlla che non ci siano puttanate e pubblicalo!”. Missione compiuta. Ma qualche berciata da Lassù è già stata messa in conto».
C’è un periodo nella vita di Oriana Fallaci rimasto per sua volontà nella penombra dopo i decenni da ruggente protagonista. 1991: Oriana torna a New York a conclusione dell’ennesima prova di inviato di guerra, il conflitto nel Golfo scatenato dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Malgrado l’età non più verde, era salita su un aereo americano descrivendo per il Corriere una missione da brivido. Una cosa tipicamente da Oriana. Già 24 anni prima, in Niente e così sia, aveva raccontato con sgomento la sua esperienza in un raid al napalm per stanare i vietcong. Rientrata in America, la Fallaci scopre di essere malata di cancro. Lei lo annuncia l’anno seguente con clamore al Washington Post mostrando la solita tempra e un sentimento altalenante («Odio questo alieno che attacca la mia vita, vorrei sputargli in faccia, strangolarlo, distruggerlo. Ma sento che sono finita»). Rilascia, quindi un’intervista sulla carriera e sulla malattia a Gino Nebiolo per la Rai. Poi scompare. «Ma che si sa di Oriana? Dov’è finita la Fallaci?», erano le domande ricorrenti negli anni Novanta dentro le redazioni e tra i suoi cultori.
Oriana, dopo una vita sotto i riflettori, star tra le star, si era “garboizzata”. Niente piu articoli sui giornali, niente piu dichiarazioni. Rinchiusa nella sua casa sulla 61esima a studiare, esaminare documenti, fare ricerche, scrivere. E così anche nei periodi che trascorreva in Italia, nell’amato casale di Greve in Chianti. Andava a rovistare tra gli archivi, i mastri anagrafici. Ancora di più: lasciata l’attualità, presa da un fervore storico, cominciava a consultare i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum delle parrocchie. Che le era preso all’Oriana? Che le era saltato in mente? Di raccontare la storia della sua famiglia, di scoprire e mettere alla luce i personaggi impavidi, estrosi, indomiti che l’avevano preceduta e forgiata. Ed ecco il monumentale Un cappello pieno di ciliege (864 pagine) che la Rizzoli, editore di tutti i libri della scrittrice (tranne il primo) lancia il 30 luglio, giusto in tempo per mettersi in valigia una saga da gustare nelle vacanze.
Un prologo e quattro parti che possono essere considerati libri compiuti a sé perché ciascuno riguarda la famiglia di uno dei quattro nonni della scrittrice. Una cavalcata storica che parte da metà del Settecento, mentre in Europa si respirano i fermenti dell’Illuminismo e si prepara aria di Rivoluzioni, e si conclude nel 1889, anno di morte di Anastasìa, bisnonna dell’autrice, il personaggio più avventuroso del libro, donna autonoma, ribelle, coraggiosa che approda e si afferma in America. Ma il fulcro della vicenda è la Toscana, è il Chianti, è Panzano, “quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena” che due secoli e mezzo fa era una terra di contadini poveri ma dignitosi. Una terra che già serbava, però, il tesoro di un’agricoltura vinicola invidiata nel resto del mondo. Ed è così che la storia sin dall’inizio sfiora la Storia con la “s” maiuscola: nientemeno che Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza americana, possidente terriero in Virginia e appassionato agronomo. Jefferson propone al commerciante fiorentino Filippo Mazzei, suo amico, di impiantare oltreoceano un’azienda per la coltivazione della vite e dell’ulivo, chiedendogli di portare con sé una decina di contadini. Tra questi si offre per la spedizione Carlo Fallaci, secondogenito di Luca, mezzadro che nel podere di Vitigliano di Sotto lavorava per i Da Verrazzano, discendenti dell’esploratore che scoprì il fiume Hudson e la baia di New York.
Il microcosmo chiantigiano si confronta così con i vastissimi orizzonti del Nuovo Mondo ma non era ancora il tempo dell’America per i Fallaci: Carlo, biondo con gli occhi azzurri, proprio come l’Oriana, cede al suo carattere di toscanaccio orgoglioso: basta un disguido nel luogo dell’appuntamento per la partenza e decide di tornare al paese. «Nel 1773… corsi il rischio di non nascere», scrive Oriana nell’incipit. Perché Carlo è il primo tra gli “arcavoli” ritrovati in cui lei individua quei cromosomi di libertà e di ribellione che le appartenevano. Sarà così anche, e certamente di più, per l’indomita moglie di Carlo, la senese Caterina Zani (il titolo del libro è preso dal cappello da lei indossato nel primo incontro con il futuro marito) che Oriana fa scagliare, incinta di tre mesi, contro l’oppressore Napoleone in passerella a Firenze sulla carrozza degli Asburgo Lorena: «Accident’a te e alla troia che t’ha partorito! Che statue sei venuto a rubarci, che guerre sei venuto a portarci, uccellaccio rapace?». Una visita che la scrittrice associa, per gli onori tributati, a quella cui lei stessa assistette di Hitler e Mussolini a Firenze. Mentre la ribellione all’invasore rimanda alla lotta partigiana che vide il padre di Oriana in prima linea e lei coinvolta come staffetta.
Ed ecco che Oriana rivive, nel secondo libro, anche in Montserrat, la spagnola che per le nozze esibisce sulla parrucca un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta, in omaggio allo sposo Francesco Launaro, marinaio di lungo corso che deve vendicare la morte del padre ucciso da crudeli pirati algerini; o, nel terzo libro, in Giovan Battista (detto Giobatta) Cantini, attivista politico anarchico. E poi, nel quarto, nella bellissima Anastasìa, repubblicana che ha una figlia da un aristocratico piemontese rimasto per sempre l’Innominato, la lascia in un orfanotrofio per andare in America dove rischia di finire sposata a un mormone nello Utah e poi arriva a San Francisco dove apre (probabilmente) un redditizio bordello. Quando torna in Italia ritrova la figlia e la vicenda acquista un sapore di feuilleton per un finale da film. Ma sono una cinquantina i personaggi principali della saga: cinque generazioni unite dagli oggetti riposti in una cassapanca del XVI secolo appartenuta a un’altra antenata, Ildebranda, accusata di eresia e bruciata dall’Inquisizione perché cucinava l’agnello in tempo di Quaresima («la mia antenata strega», amava vantarsi Oriana).
In quella cassapanca, che sarebbe andata in fumo nei bombardamenti su Firenze del 1944, l’Oriana bambina aveva trovato, tra l’altro, un abbaco e un abbecedario del Settecento, la lettera di un prozio arruolato da Napoleone e poi morto nella campagna di Russia, una federa che riportava una scritta preziosa, un paio di occhiali, una copia di un libro del Beccaria. Altri oggetti che le erano rimasti: un liuto senza corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi dello Stato Pontificio e un vecchio orologio con i rintocchi di Westminster. Ma soprattutto insieme con questa Spoon River toscana c’erano le voci dei genitori Edoardo e Tosca, «divertita e ironica quella di lui», scrive nel prologo la Fallaci, «sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia». Ed ecco che da questi pochi indizi, dai flebili ricordi, comincia la ricerca frenetica dei luoghi, delle date, delle conferme. Materiale per formare un sostrato storico sopra il quale i grandi romanzieri scatenano la fantasia. «Fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile e all’inventato…». E la Fallaci mette al servizio di caratteri e situazioni la sua ammaliante scrittura passionale, arricchita da un sapore ironico e popolaresco: in fondo si tratta di un pezzo di storia d’Italia fatta da povera gente, per lo più indigenti e analfabeti.
«Mia zia è stata sempre affascinata dai racconti della famiglia», spiega Edoardo Perazzi, erede testamentario della scrittrice, il nipote che l’ha accompagnata fino alla morte. «Quando passavamo le estati nella casa del Chianti aveva il quaderno degli appunti sempre pronto per raccogliere ricordi, prendeva appunti non solo con i nonni ma anche con lo zio Bruno, giornalista di Epoca e del Corriere, e con altri parenti. Era la stessa ansia di trascrivere, per fare un esempio, lo struggente diario trovato a un vietcong morto in battaglia, finito poi integralmente in un capitolo di Niente e così sia. Eppure soltanto una decina di anni fa ci rendemmo conto che questo materiale stava per diventare un nuovo libro». Ma perché la storia si conclude nel 1889? «A dire il vero lei aveva cominciato a scrivere dal Novecento, inizialmente la saga si sarebbe dovuta fermare al ’44, alla cacciata dei nazisti da Firenze. Esistono molti appunti e un abbozzo della prima stesura. Ma poi le sembrò che quelle vicende vissute personalmente e raccontate un po’ in tutti i suoi libri, in questo caso intralciassero lo spirito romanzesco del libro. E si tuffò nel passato. Il materiale di ricerca accumulato per costruire questa saga è portentoso e spero che un giorno possa essere conservato in un fondo e utilizzato dal pubblico.
Dal costo del biglietto delle carovane del Far West agli eventi meteorologici di Radda e Greve in Chianti, Oriana è stata puntigliosa e sfiancante per chi le ha dato una mano. Ho trovato l’appunto di uno studioso dell’università di Boston che, esausto per la ricerca del nome di una certa nave che faceva la spola tra Plymouth e Livorno, la supplica di accontentarsi di quanto aveva trovato. Avrebbe voluto andare ancora più indietro nel tempo, Oriana: arrivare all’antenata bruciata o all’epoca in cui, secondo quanto detto da alcuni personaggi, il seme dei Fallaci era emigrato in Chianti dalla Firenze dell’epoca di Boccaccio, assediata dalla peste. Ma non aveva trovato documentazione di quei secoli e così è partita dalle prime notizie sicure». Perazzi ha lavorato con la redazione della Rizzoli per riportare nel testo le correzioni della quarta parte e ricostruire l’albero genealogico della famiglia allargata fallaciana che appare nei risguardi all’inizio del volume, mentre in coda si possono leggere le note del nipote e dell’editore in cui si evidenziano gli interventi e le piccole incoerenze non corrette. «Abbiamo mantenuto le imperfezioni da opera incompiuta per rispetto dell’autrice. Ma questa appendice, che comprende alcune pagine dattiloscritte con la scrittura di Oriana, sarà un altro motivo di interesse per i suoi ammiratori».
Ed eccoci nuovamente all’11 settembre. Oriana è sconvolta dall’attentato alle Torri, decide di rompere il suo silenzio decennale con un clamoroso articolo apparso il 29 settembre 2001 sul Corriere, intitolato La Rabbia e l’Orgoglio. Chiude la sua violenta invettiva con questa frase: «Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ora basta. Punto e basta». Ma poi non ce la fa a mantenere l’impegno e Un cappello pieno di ciliege non sarà più ripreso. «Superato il trauma mi dissi: devo dimenticare ciò che è successo e succede. Devo occuparmi di lui e basta. Sennò lo abortisco. Così stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano la pagina del giorno prima, cercai di riportare la mente ai miei personaggi. Creature di un mondo lontano, di un’epoca in cui gli aerei e i grattacieli non esistevan davvero. Ma durò poco. Il puzzo della morte entrava dalle finestre». La Rabbia e l’Orgoglio divenne così un libro, un successo da oltre un milione di copie. «Oriana si portò fino alla morte il cruccio di non aver messo la parola fine a quest’opera», continua Perazzi. «E forse non se lo perdonava. Nell’agosto 2006, nell’ultimo mese di vita, mi dava disposizioni di ogni genere ma non mi parlava del romanzo. Così un giorno presi coraggio. “Senti Oriana, io mi ritrovo anche questo tuo bambino (i suoi libri lei li chiamava così) ma cosa devo farne: pubblicarlo, chiuderlo in banca, bruciarlo?”. “Oh, ma che tu sei rincitrullito?!? Certo che lo devi pubblicare. Controlla che non ci siano puttanate e pubblicalo!”. Missione compiuta. Ma qualche berciata da Lassù è già stata messa in conto».
Alessandro Cannavò
(C) Corriere della Sera Magazine
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