24 luglio 2008

Quei quattro faldoni in via Mecenate

Sono quattro faldoni e una scatola. Sta lì, alla Rizzoli di via Mecenate, il lavoro cui Oriana Fallaci aveva dedicato gli anni Novanta del secolo scorso, la saga familiare che partiva dal ‘700 e sarebbe dovuta arrivare fino ai giorni nostri. Uno dei faldoni è smilzo: c’è il prologo, otto pagine. Lì c’è anche il titolo: Un cappello pieno di ciliege. E l’annessa definizione: Una saga. Tutto mantenuto dopo qualche dubbio perché Fallaci medesima aveva preso in considerazione un’altra ipotesi: Passaggi nel tempo, espressione che, fra l’altro, nel testo ricorre spesso. Gli altri tre faldoni sono gonfi. Le pagine di cui sono zeppi portano un testo quasi definitivo: le prime tre parti, in tutto 373 fogli formato A4. Il livello è quello dell’ultimissima revisione. L’autrice ha già letto, riletto, aggiunto, tagliato, corretto e armonizzato diverse volte. Anche se, in base all’esperienza degli altri libri, con Fallaci gli interventi sul testo non finivano che all’ultimo secondo prima della stampa (e talvolta non bastava…).

Di molti aggiustamenti non c’è neanche traccia nei fogli dattiloscritti arrivati all’editore: la vecchia versione è sparita con la carta tagliata e sostituita in un minuzioso cesello di forbici e scotch. Qui si tratta di una riga a mano aggiunta ogni ventina di pagine con un segno di pennarello rosso a indicare dove inserirle, di qualche parola cancellata, di altre cambiate: una striscia di bianchetto e poi a ribattere sopra. E post it colorati, con avvisi, integrazioni, note da verificare. I post it sono come pizzini non sempre di facile decifrazione. Subito all’inizio ce n’è uno che è parso a lungo incomprensibile. Indica che alla frase va aggiunto: «…e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei e…». Qui si distinguono due parole ma non si capisce quali siano. «Un fatto strano perché di solito la grafia della Fallaci è leggibile facilmente. Le abbiamo interpretate solo 300 pagine dopo», racconta uno dei curatori del testo. Le due parole sono “passaporto spagnolo”, ci si arriva quando l’utilità di quel lasciapassare viene rievocata nel racconto, molto dopo, appunto. A volte gli interventi riguardano espressioni di cui si da la versione più toscana – “scansare” al posto di “evitare” – a volte succede il contrario e toglie “scovato”. In altri casi Fallaci ha cambiato completamente il taglio del passo.

Carlo Alberto non le è affatto simpatico, ma in una prima versione lo mette in croce come ipocrita e bigotto. Dopo, ci ripensa. E il capo d’accusa diventa il suo “disamore” per il popolo che non vuole educare e salvare dalla miseria. Vengono rivisti lapsus: il trisnonno paterno viene chiamato “Domenico”, si legge sotto il bianchetto e la correzione “Donato”. Altri 275 fogli stanno nella scatola. È la quarta parte di Un cappello pieno di ciliege. Viene in mente Emilio Radius, che aveva avuto la Fallaci come redattrice agli inizi della carriera, all’Europeo di Arrigo Benedetti, e che ne fece il ritratto in un libro di molto tempo fa, 50 anni di giornalismo (Miano editore): «Non le era difficile cominciare; le era difficile finire, fermarsi, concludere. Le scrivesse con fatica o senza fatica, vi portava decine di cartelle a macchina». Nella scatola è la quarta parte. Qui, la fatica si vede. Il “cantiere” è meno prossimo alla conclusione, c’è una pagina dove la spaziatura si fa più compatta e ci sono tre fogli aggiunti scritti a mano. E il numero dei post it aumenta. Un promemoria e un appunto danno il senso del metodo di lavoro. Il promemoria è una pagina scritta a penna, sotto l’intestazione «vedi xerocopia di Spurs». Spurs probabilmente sta per una rivista americana dedicata ai cultori della memoria “western”. Nel racconto siamo alla parte dedicata all’avventuroso viaggio negli Stati Uniti di Anastasìa, una delle antenate. Che i racconti familiari tramandavano amica o conoscente dei grandi personaggi di quell’epopea, da Jesse James a Wild Bill Hickock.

La pagina è fitta di note numerate che corrispondono ad altrettanti particolari da controllare nelle linee dei servizi di diligenza, nelle compagnie che li gestivano, negli orari e negli itinerari. Una ricerca apparentemente marginale rispetto alla trama, eppure da portare a termine. Qualche foglio più in là, l’appunto è un’intimazione: «Via il superfluo, prendere l’essenziale». Certo, ma dopo aver accertato tutto… Anche perchè di romanzo si tratta, con l’annessa libertà creatrice di chi scrive. Fallaci lo rivendica nelle prime pagine parlando di com’è nata l’opera: «Divenne impossibile… stabilire… se si fossero trasformate in un frutto della mia fantasia». Un doppio esempio, di documentazione e trasfigurazione, arriva presto. Col trittico di Mariotto di Nardo nell’oratorio di San Eufrosino, a due passi da Panzano. Il trittico nell’oratorio non c’è. È, invece, nella Pieve di San Leolino, un chilometro lontano. Dei ritocchi mancanti, comunque, il lettore è avvertito dalla Nota dell’editore e dalle appendici sul testo e i criteri dell’edizione. E nel cantiere in via di completamento sono vetri da lustrare, più o meno.

Si spiega, ad esempio, come non sia stata messa mano a qualche incongruenza: un Inno di Mameli cantato da due personaggi due mesi prima di quando in realtà fu composto, la residenza di famiglia che nel finale risulta a Mercatale mentre, fino allora, è stata segnalata a Candialle (e Fallaci era consapevole della necessità di uniformare, indicata in un post it), soprattutto i riferimenti accennati a eventi novecenteschi - «come vedremo» - che poi, invece, il libro non arriva a raccontare. Il criterio è il rispetto di un’indicazione dell’autore. L’ha riferita Edoardo Perazzi, il nipote che raccolse le ultime volontà rispetto al romanzo: «Se ci sono bischerate grosse, lascia com’è». Detto per inciso, non c’è contraddizione col ricordo - sempre del nipote - citato da Cannavò in chiusura dell'articolo. Parrebbe, e in modo clamoroso. Ma non è così. Fra “puttanate” e “bischerate” Fallaci metteva una differenza abissale. Le prime sono gli strafalcioni, gli errori di ortografia, i nomi palesemente confusi. Le “bischerate” sono, invece, le incongruenze gravi, gli inceppi logici nella trama che obbligherebbero una riscrittura per mano altrui.

Quel che Fallaci non voleva assolutamente. A costo di sbagliare. ma sempre in proprio. A volte, poi, i documenti è stato impossibile rintracciarli. In famiglia Fallaci c’era la leggendaria memoria di Ildebranda, un’altra “arcavola” – è il termine che alla scrittrice piace usare per gli antenati più lontani – bruciata come strega sul rogo. Ma fino a lei – ovvero al Cinquecento più o meno - la narrazione non è riuscita a risalire. Fallaci si limita a evocarla a proposito di un altro personaggio, Caterina: «Quella strega più strega delle streghe che dovrebbe finire al rogo anche lei». Il tema, del resto, le era caro. Sempre Radius ricorda: «Finirono per chiamarla “la strega di piazza Carlo Erba”, dal nome della piazza in cui aveva sede la Casa Rizzoli; e lei, invece di aversene a male, se ne compiacque». In un altro passo le bozze danno traccia di una incertezza che è segno di attenzione. Si riferisce a Anastasìa. La chiama “strega”. Poi sbianchetta e mette “Circe”. Poi cancella a lapis anche questo. I curatori hanno optato per “strega”. Infine, un mistero. Voluto dall’autrice. È quello del personaggio che mette incinta Anastasìa, praticamente il bisnonno di Oriana. Un padre naturale “celeberrimo e ultraristocratico”. Lei fa capire di sapere il nome ma non lo dice. Del resto, in un romanzo, un “innominato” sta sempre bene.

Enrico Mannucci
(C) Corriere della Sera Magazine