05 luglio 2008

Tre motivi (da europeo) per credere in Obama

Perché scommetto sulla vittoria di Barack Obama. Naturalmente ci sono alcune incognite. Intanto, il personaggio McCain, che avremmo torto di sottovalutare: è un uomo rimarchevole; sorprendente nel suo rifiuto della tortura o di Guantanamo; audace nel combattere la politica fiscale delle due amministrazioni Bush. Il democratico John Kerry non aveva forse pensato, a un certo punto, di fare ticket con questo conservatore fuori dalle norme? Poi, la specialità americana, e in particolare repubblicana, chiamata la «junk politic», di cui nessuno può predire gli effetti devastatori: a quando l' inizio dei colpi bassi? Su quale sito Internet i primi fotomontaggi del candidato con le sembianze di un integralista islamico? Quanti nuovi pastori Jeremiah Wright vedremo uscire dai gineprai delle terribili «associazioni 527» che consentono, al margine dei partiti, e senza che la loro responsabilità tanto morale che finanziaria sia messa in causa, di lanciare qualsiasi campagna di calunnie? Infine, c' è l' incognita di un modo di scrutinio che purtroppo non ha eguali nel raffreddare gli slanci lirici: considerate che l' obiettivo dell' elezione è di conquistare, in ognuno dei cinquanta Stati, i delegati che, tutti insieme, eleggeranno poi il presidente; pensate che, in questi Stati, non c' è alcuna differenza se si vince per un pelo o con una schiacciante maggioranza poiché, nei due casi, si otterrà la totalità dei delegati; aggiungete che, nei due terzi dei cinquanta Stati, la tradizione, come i sondaggi, indica che i giochi son fatti e che dare battaglia non cambierà nulla; la conclusione logica di tutto questo è che la campagna elettorale si concentrerà su 15, 18, forse stavolta 20 «swing States», cioè «Stati in bilico», dove basterà spostare poche migliaia di voti; e la conclusione di tale conclusione è che il dibattito tenderà a portarsi su questioni locali, spesso infime, e comunque ben lontane dagli entusiasmi «macropolitici» che, a distanza - grazie agli effetti mediatici che fanno da lente d' ingrandimento - danno la sensazione di un' obamamania irresistibile.

Prese queste precauzioni, restano tre buone ragioni di credere nella vittoria del senatore dell' Illinois. 1) L' America è cambiata. È l' ultraconservatore Samuel P. Huntington a notarlo nel suo ultimo libro, «La nuova America. Le sfide della società multiculturale» (Garzanti 2005): l' America non è più il Paese protestante, anglosassone, europeo per tradizione e bianco per vocazione, che non poteva immaginare che un giorno un nero si lanciasse, seriamente, nella corsa alla Casa Bianca. I due mandati di Bush? La svolta ultra-conservatrice del Paese dopo l' 11 settembre? Le campagne degli avversari dell' aborto o dei sostenitori del creazionismo anti-Darwin? In tutto questo possiamo certo scorgere una tendenza forte, un movimento di fondo. Possiamo anche - è il mio caso - scorgere il soprassalto, l' ultima, gloriosa impennata, la mobilitazione disperata di un' America che sa di essere sul punto di morte ma che ritarda, finché può, il momento in cui se ne dovrà accorgere e dovrà rendere le armi. 2) Obama non è un nero comune. Non è «soltanto» meticcio. Ma, contrariamente a Jessie Jackson o a Al Sharpton, contrariamente a Condi Rice che, come loro, discende da schiavi e quindi porta con sé la memoria della segregazione, egli è nato da un padre keniota. La differenza è enorme. Infatti, lo specchio che Obama tende all' America non è più lo specchio di quei tempi bui. L' immagine che riflette del Paese non è più quella di una colpevolezza ancestrale e, in fondo, insopportabile. Barack Obama può vincere perché è il primo afro-americano a fare, grazie alle sue origini, un passo fuori dai ranghi di quella che qui è chiamata la «guerra civile»; è il primo che, invece di giocare la carta della condanna, se non della dannazione, può giocare quella della seduzione e, come egli ripete di continuo, della riconciliazione. 3) È un uomo che vale. Intendo dire che non solo è il più carismatico (nessun dubbio su questo), ma il più dotato degli uomini politici prodotti dalla macchina democratica da lungo tempo. Appuntamento a Denver (Colorado), «swing State» per eccellenza, dove in agosto egli venderà a caro prezzo il fatto di aver scelto quello Stato, e non un altro, come teatro della propria consacrazione. Appuntamento in Florida, altro Stato in bilico, dove è già in campagna contro la prospettiva, imprudentemente incoraggiata dal suo rivale, di trivellazioni petrolifere offshore. Ascoltatelo quando, nel Nevada, trova le parole giuste per toccare le corde sensibili di quei patrioti di prima, seconda generazione chiamati ispanici. E sorvolo sulla grande novità di attribuire a un comitato speciale (presieduto, scusate se è poco, dall' ultima dei Kennedy) la responsabilità della scelta del futuro vicepresidente: il governatore del Nuovo Messico? Il senatore Jim Webb, veterano del Vietnam? Il governatore Strickland, come per fare un cenno d' intesa ai blue collars? Bill Ritter, per i cattolici? Nel principio stesso di questo bilanciamento politico dato in spettacolo all' America intera, c' è il più abile, il più astuto e, alla fine, il più redditizio dei tributi pagati all' inevitabile bizzarria del suo sistema elettorale. Sono stato uno dei primi a constatare, quattro anni fa, dopo averlo ascoltato, e poi incontrato, a Boston, l' apparizione della meteora Obama. Mi auguro di non sbagliarmi nemmeno oggi annunciando che egli avrà, ormai molto presto, il volto degli Stati Uniti.

Bernard-Henri Lévy
(C) Corriere della Sera