28 settembre 2008

E se i serial Tv fossero l'ultima frontiera del romanzo ottocentesco?

Dopo due Golden Globe, sono venuti gli Emmy Awards: sei premi, compreso quello per "Miglior serie drammatica". Parliamo di "Mad Men", serial americano creato da Matthew Wenner (già ideatore de "I Soprano") per la AMC e trasmesso in Italia dal canale satellitare Cult. Protagonista delle vicende è Don Draper (un bravissimo Jon Hamm), direttore creativo dell'agenzia pubblicitaria Sterling Cooper. A fare da sfondo alla vita di Don, della sua famiglia e dei suoi colleghi ci sono Madison Avenue – regno dei pubblicitari americani – e la New York degli anni Sessanta.

Da qualche anno a questa parte, i serial americani – di cui "Mad Men" è un grande esemplare – stanno vivendo una fase di grande successo, lo stesso che nei secoli passati ha investito romanzo e cinema. Forme artistiche bistrattate, relegate alla plebe: il romanzo ottocentesco sembrava destinato alle sole donne borghesi, se non alle loro serve. E così il cinema: gli amanti del teatro – forma di spettacolo imperante fino al Novecento inoltrato – guardavano dall'alto in basso le proiezioni cinematografiche, buone solo per chi non poteva permettersi gli storici teatri cittadini. Oggi, la situazione è chiara: se "romanzo" è diventato sinonimo unico di "letteratura", il cinema è considerato forma d'arte a tutti gli effetti.

E se lo stesso, tra qualche anno, accadesse per i telefilm? Se in molti li vedono ancora come dei feuilleton televisivi per adolescenti, c'è anche chi ne riconosce meriti e qualità: ad esempio il critico del "Corriere della Sera" Aldo Grasso, che i telefilm li ha portati nelle aule universitarie. La tesi di Grasso è semplice e coraggiosa: i serial americani sono i romanzi del XXI secolo, ormai più efficaci di cinema e libri nel raccontare la società che ci circonda. Molti storceranno il naso, come poeti e critici teatrali di fronte a narrativa e cinema. Ma una cosa, per ora, è certa: ci sono serie televisive americane che non hanno nulla da invidiare ai più riusciti film hollywoodiani.

"Mad Men", in questo senso, è un campione di ottima televisione: appassionante, ma stilisticamente perfetto; divertente, ma culturalmente stimolante. Al centro della scena c'è un grattacielo altissimo che si affaccia su Madison Avenue – da qui il titolo della serie: "Mad Men" sta per "Uomini di Madison Avenue", ma anche "Uomini pazzi". Dentro il grattacielo, una grande agenzia pubblicitaria: la Sterling Cooper con tutti i suoi "abitanti", dai soci fondatori – il saggio Bertram Cooper e il libertino Roger Sterling – alle segretarie – Joan Halloway, procace amante di Roger, e la coprotagonista della serie Peggy Olson, alle prese con il primo lavoro nella Grande Mela. Tra i due estremi, il variopinto mondo dei pubblicitari: Don Draper, affascinante direttore creativo dal passato misterioso; Pete Campbell, arrivista account executive; Salvatore Romano, art director di origine italiana. E le loro famiglie: Don Draper ha una moglie in terapia, Pete Campbell un suocero troppo ricco, Roger Sterling una moglie tradita. Uomini grandi e piccoli nell'America del boom, alle prese con le gioie e i dolori quotidiani: la carriera, l'amore, i figli, i soldi.

Uno dei punti di forza della serie è la rappresentazione dell'America nei primi anni Sessanta. Tutto è curato nei minimi dettagli per ricostruire alla perfezione la New York del boom economico e del capitalismo imperante: i vestiti, gli oggetti, le case, le automobili, i liquori. "Mad Men" è una piccola macchina del tempo, in cui fotografia e scenografia (degne del miglior cinema hollywoodiano) collaborano per portarci in un'epoca eroica, quando Nixon perse alle presidenziali contro un giovane senatore – John Fitzgerald Kennedy – sul quale nessuno avrebbe scommesso. Quando i venditori porta a porta presentavano i primi esemplari di aria condizionata per la casa. E quando la lotta governativa contro il fumo si fece cosa seria, alla faccia del mitico cowboy Marlboro.

A conquistare definitivamente pubblico e critica, però, è la rappresentazione del mondo pubblicitario offerta dalla serie. "Mad Men" ricorda a tutti noi – infarciti di osceni spot televisivi – che una volta "fare pubblicità" era una cosa seria: i manifesti sapevano essere intelligenti, sorprendenti, artistici. Se la Sterling Cooper è frutto d'invenzione, rappresenta però al meglio la struttura delle agenzie pubblicitarie negli anni d'oro dell'advertising. Il vero capo, negli anni Sessanta, era il direttore creativo: quello che oggi è una semplice pedina delle multinazionali, costretta a lavorare in fretta e furia (a scapito della qualità del prodotto). Se oggi per fare pubblicità basta prendere la modella o il calciatore di turno, un tempo non era così facile: il capitalismo in ascesa doveva infatti trovare delle valide "reason why", delle argomentazioni – serie e possibilmente geniali – per spingere i consumatori ad acquistare un determinato prodotto.

Tra i concorrenti della Sterling Cooper, del resto, figura il più grande pubblicitario della storia: Bill Bernbach, la mente creativa dietro alla storica agenzia newyorchese DDB (oggi di Spike Lee). Bernbach è l'uomo che ha definitivamente lanciato la Volkswagen negli Stati Uniti: quella campagna pubblicitaria è giudicata la più importante e innovativa del settore; l'uomo che ha basato il successo della compagnia di autonoleggio Avis "sull'importanza di essere secondi"; il creativo che ha salvato dal fallimento prodotti ebraici di nicchia come il pane di segale "Levy's". Ma la New York di "Mad Men" è anche quella di David Ogilvy, il primo pubblicitario a giocare sul desiderio di elevazione sociale del consumatore (lo "snob appeal"). Grandi uomini che hanno reso mitica una professione: quello del pubblicitario, al pari del giornalista, era visto infatti come un lavoro per pochi eletti, una porta d'accesso al successo, al lusso e al divertimento. Oggi per i pubblicitari non è più così: figure mitiche, forse, diventeranno però gli ideatori di serie fantastiche come "Mad Men".

L'Occidentale