06 settembre 2008

I mille volti di un intellettuale alle prese col difficile mestiere di vivere

Roma e Milano lo hanno celebrato in primavera. Roma con la mostra "Cesare Pavese. Il mestiere di scrivere", organizzata dalla Casa delle Letterature in collaborazione con la Fondazione Cesare Pavese. Milano con l'esposizione "Omaggio a Cesare Pavese nel centenario della nascita", ospitata dalla Biblioteca Braidense e curata da Mariarosa Masoero e Giovanni Tesio. Ma il centenario della nascita di Cesare Pavese – uno tra i più grandi autori della letteratura italiana del Novecento – cade in realtà il 9 settembre: era il 1908 quando il futuro intellettuale vide la luce a Santo Stefano Belbo, un paesino di 4000 abitanti in provincia di Cuneo (dove è ancora possibile vistare la casa natale dello scrittore, trasformata in museo). Piemontese di nascita e formazione, Pavese è un autore inscindibile dal suo habitat: la Bassa Langa. Una terra fuori dal tempo – patria del tartufo e dei vini rossi –, una regione che i romanzi di Pavese lasciano assaporare con una prosa lirica e malinconica, fatta di immagini sfumate ma al tempo stesso indimenticabili.

Parlare di Cesare Pavese – ancora troppo sacrificato nei programmi scolastici di letteratura italiana, al pari dell'altrettanto grande (e coetaneo) Elio Vittorini – è parlare di un uomo di cultura a tutto tondo, tipicamente novecentesco. Abbandonata la figura del classico scrittore dell'Ottocento, il Novecento italiano – con le sue guerre, i suoi morti e la sua dittatura – propone un intellettuale nuovo: narratore, certo, ma anche giornalista e militante politico, traduttore ed editore. In altri termini, un punto di riferimento per la nuova società di massa. Una figura che in Cesare Pavese ha trovato perfetta incarnazione, salvo poi scontrarsi con la fragilità di un uomo alla prese con il (maledettamente) difficile "mestiere di vivere".

Un ritratto di Pavese non può che partire dai suoi romanzi. Al Ginnasio "Cavour" di Torino Pavese scopre la letteratura, iniziando – come gran parte degli adolescenti – ad esprimere in versi quello che sente dentro. Ma la sua sensibilità letteraria – confermata dall'iscrizione alla Facoltà di Lettere – lo porterà poi a dedicarsi ai romanzi che lo hanno reso famoso. Parte con dei racconti per approdare a "Paesi tuoi", la sua prima opera ad essere stampata e commercializzata: è la storia di due uomini (un meccanico e un contadino) appena usciti di prigione, alle prese con la violenza quotidiana e quella ancestrale insita in ogni uomo. La consacrazione narrativa giunge però nel dopoguerra, quando i romanzi di Pavese ritraggono i diversi volti della Resistenza: la lotta clandestina di Pablo (protagonista de "Il compagno") e l'apatia del professor Corrado di fronte ai connazionali che lottano per la libertà ("La casa in collina"), per giungere al capolavoro assoluto de "La luna e i falò", dove infanzia e maturità si mischiano nel tratteggiare l'Uomo di fronte alla grande Storia.

Non meno importanti – anche se meno conosciute – sono le attività collaterali alla scrittura intraprese dallo scrittore nel corso della vita. Pochi sanno, ad esempio, che Cesare Pavese è stato un grande traduttore: in collaborazione con Elio Vittorini (e con una giovane allieva di nome Fernanda Pivano), Pavese è stato tra i primi ad innamorarsi della letteratura americana, contribuendo ad importarla nel Bel Paese mentre la bandiera a stelle e strisce era vista con assoluto sospetto. Tradusse "Moby Dick" di Melville, scrisse per primo di Anderson e dei morti di Spoon River: un'infatuazione che lo porterà a collaborare con Vittorini nella compilazione dell'antologia "Americana", scontrandosi con un regime che dell'italianità di letteratura e linguaggio aveva fatto bandiera.

Ma se Mussolini non vedeva Pavese di buon occhio, questo era dovuto soprattutto alla sua militanza politica e giornalistica. Costretto ad un anno di confino in Calabria nel 1936, Pavese non aveva mai fatto mistero della sua avversione al Fascismo: un sentimento consacrato dopo la guerra con l'iscrizione al Partito Comunista e con la collaborazione al quotidiano fondato da Antonio Gramsci, "L'Unità". Ed è proprio nella redazione del giornale che Pavese conosce un altro scrittore italiano, Italo Calvino: un'amicizia che porterà entrambi a segnare definitivamente la storia dell'editoria italiana del dopoguerra.

I contatti di Pavese con l'editoria cominciano molto presto. Oltre che in veste di traduttore, Pavese inizia a collaborare con la storica casa editrice Einaudi sin dal 1934: l'editore lo chiama alla direzione della rivista "Cultura" in quanto intellettuale meno compromesso di altri con il regime. Nel corso degli anni Trenta, Pavese mette poi al servizio della casa torinese la propria esterofilia per la collana "Narratori stranieri tradotti": continuano, intanto, le traduzioni dei grandi americani. Il boom editoriale, però, esplode nel dopoguerra: si stabilisce qui, definitivamente, il sodalizio tra Cesare Pavese ed Einaudi. Una collaborazione umana ed intellettuale che assume le forme più svariate: nel 1945 è inviato a Roma per rafforzare la sede della casa editrice nella Capitale, mentre negli anni seguenti (a Torino) si dedica anima e corpo alla creazione della "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici" – un'iniziativa che porta in Italia autori fino a quel momento sconosciuti, da Malinowski alla psicologia di Jung.

Questi anni di febbrile attività intellettuale sono però anni di sofferenze, raccontati nel diario intimo "Il mestiere di vivere". Sono forse la mancanza di stimoli, la fragilità del suo essere piuttosto che la perdita di una donna amata (l'attrice americana Costance Dowling) a mettere fine a quella lotta quotidiana chiamata esistenza. La fine, per Cesare Pavese, ha le fattezze dell'oblio regalato dai sonniferi: bustina dopo bustina, lo scrittore decide di farla finita il 27 agosto 1950, nella stanza di un hotel romano. Sul suo comodino è stata trovata una copia di "Dialoghi con Leucò", sul frontespizio le ultime parole: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?". Pochi giorni prima, sul suo diario, l'addio alla scrittura: "Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più". La fine di una vita bellissima.

L'Occidentale