Ecco la lettera che Pier Ferdinando Casini e Filippo Andreatta hanno scritto al "Corriere della Sera", condannando l'atteggiamento dell'Italia (e in particolare del Pd) sulla crisi georgiana.
Caro Direttore, la bipartisanship in politica estera è un valore importante, che permette ad un paese di avanzare i propri ideali e difendere il proprio interesse nazionale con continuità. Entrambi, pur da posizioni politiche distinte e in contesti differenti (le istituzioni o l’accademia), abbiamo sempre sostenuto che - sui temi di politica internazionale - maggioranza e opposizione debbano convergere il più possibile almeno sulle linee di fondo. Questa convergenza non era possibile all’inizio della Repubblica, quando l’Italia era divisa proprio sulla collocazione nell’ambito della guerra fredda, ma gran parte dei progressi politici del dopoguerra sono stati accompagnati da una progressiva accettazione delle provvidenziali intuizioni di De Gasperi, che volle fermamente un’Italia atlantica ed europeista. Le stagioni del centrosinistra degli anni '60 e della solidarietà nazionale negli anni '70 furono pertanto aperte da un allargamento della base di consenso sulla collocazione italiana, quando il Psi e il Pci, rispettivamente, accettarono l’adesione italiana alla Nato e al processo di integrazione europea.
Non è quindi senza rammarico che segnaliamo la nostra insoddisfazione verso l’approccio del governo italiano nei confronti della crisi con la Russia, proprio quando il governo e il principale partito d’opposizione sembrano aver trovato un’intesa su questo punto. Il consenso è infatti un valore quando è espresso su una politica giusta, mentre la bipartisanship è, purtroppo, doppiamente dannosa quando le decisioni sono sbagliate. Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono infatti trovati su una posizione definita come equidistante nei confronti del conflitto tra Russia e Georgia, ma che equivale ad una sostanziale sostegno alle posizioni di Mosca. Sebbene come in tutte le crisi sia difficile allocare torti e ragioni, nel caso della guerra del Caucaso la maggiore potenza russa, e la sua determinazione nel perseguire i propri obiettivi anche a scapito del diritto internazionale e degli inviti della maggioranza degli Stati, rappresentano infatti di gran lunga il problema principale. La Russia ha risposto alla crisi in Sud Ossezia con una forza sproporzionata, ha cercato di ottenere la caduta del regime democratico georgiano ha esteso l’area dei combattimenti all’Abkazia, è penetrata nel territorio non conteso e bombardato le città della Georgia, rifiutandosi poi di ritirarsi nei termini dell’accordo che aveva appena firmato, e ha infine dichiarato - unilateralmente e illegalmente - l’indipendenza delle due regioni, accusando gli Stati Uniti di aver orchestrato un’aggressione. Per questo comportamento inaccettabile non è sufficiente esprimere «rammarico», come ha fatto il Ministro Frattini con il sostanziale appoggio dell’onorevole Fassino, che ha invece invocato una nuova Helsinki per negoziare con la Russia.
È giunto invece il momento di interrogarci a fondo sui rapporti con la Russia dell’Italia e delle istituzioni - Nato e Ue in testa - di cui l’Italia fa parte. In primo luogo, ci siamo a lungo illusi che la Russia fosse diventata una potenza democratica e responsabile, ed infatti ci sono stati dei progressi in questo senso. Allo stesso tempo però, abbiamo forse troppo spesso chiuso gli occhi di fronte alla repressione in Cecenia e nei confronti delle altre minoranze in seno alla federazione, e nei confronti di ogni opposizione. Ora che questi metodi violenti e spregiudicati non sono più confinati all’interno della Russia, ma vengono utilizzati con uno stato sovrano, non è più possibile ignorarli. In secondo luogo, la crisi delle ultime settimane ha dimostrato un cambiamento della strategia russa non solo nel Caucaso, ma anche nei confronti delle altre Repubbliche ex sovietiche e dell’Occidente. La Russia ha minacciato ritorsioni contro eventuali sanzioni e contro l’installazione di missili americani in Europa, e ha ventilato la possibilità di un’alleanza destabilizzante con la Siria. In terzo luogo, sebbene alcuni paesi abbiano mantenuto una certa cautela, una crescente ondata di condanna delle posizioni russe è cresciuta nelle ultime settimane, che comprende gli Stati Uniti e - in Europa - la Gran Bretagna e gli Stati che hanno aderito recentemente all’Unione Europea (Baltici e Polonia in testa), e alla quale l’Italia deve una risposta.
Ci saremmo quindi aspettati una posizione più netta dell’Italia, che segnalasse, ovviamente senza una rottura nei rapporti con la Russia, una maggiore preoccupazione. Siamo invece il paese che, nelle discussioni con gli alleati, ha tenuto la posizione più filo-russa di tutti, e non è un caso che il Presidente Medvedev si sia sentito in dovere di ringraziare il nostro paese in un’intervista televisiva al Tg1. La familiarità tra il Presidente del Consiglio e la leadership del Cremlino può essere un’opportunità solo se è utilizzata per rafforzare la posizione di chi vuole convincere la Russia a interrompere la sua politica aggressiva, mentre è un’occasione persa - per l’Italia, ma anche per Berlusconi - se l’amicizia dovesse essere percepita come un elemento di indebolimento del fronte occidentale e di acquiescenza di fronte a comportamenti destabilizzanti per il sistema internazionale. Sotto questo aspetto, anche la posizione del Pd è deludente, in quanto rinuncia ad incalzare il governo su un tema così importante. Il Cremlino, ci pare, non ha bisogno di difensori d’ufficio. Ci sono ben altri temi sui quali varrebbe la pena di impostare un dialogo bipartisan per il bene del paese. Quello di una sostanziale capitolazione al nuovo, e pericoloso, corso della politica estera russa non è, a nostro avviso, tra questi.
Caro Direttore, la bipartisanship in politica estera è un valore importante, che permette ad un paese di avanzare i propri ideali e difendere il proprio interesse nazionale con continuità. Entrambi, pur da posizioni politiche distinte e in contesti differenti (le istituzioni o l’accademia), abbiamo sempre sostenuto che - sui temi di politica internazionale - maggioranza e opposizione debbano convergere il più possibile almeno sulle linee di fondo. Questa convergenza non era possibile all’inizio della Repubblica, quando l’Italia era divisa proprio sulla collocazione nell’ambito della guerra fredda, ma gran parte dei progressi politici del dopoguerra sono stati accompagnati da una progressiva accettazione delle provvidenziali intuizioni di De Gasperi, che volle fermamente un’Italia atlantica ed europeista. Le stagioni del centrosinistra degli anni '60 e della solidarietà nazionale negli anni '70 furono pertanto aperte da un allargamento della base di consenso sulla collocazione italiana, quando il Psi e il Pci, rispettivamente, accettarono l’adesione italiana alla Nato e al processo di integrazione europea.
Non è quindi senza rammarico che segnaliamo la nostra insoddisfazione verso l’approccio del governo italiano nei confronti della crisi con la Russia, proprio quando il governo e il principale partito d’opposizione sembrano aver trovato un’intesa su questo punto. Il consenso è infatti un valore quando è espresso su una politica giusta, mentre la bipartisanship è, purtroppo, doppiamente dannosa quando le decisioni sono sbagliate. Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono infatti trovati su una posizione definita come equidistante nei confronti del conflitto tra Russia e Georgia, ma che equivale ad una sostanziale sostegno alle posizioni di Mosca. Sebbene come in tutte le crisi sia difficile allocare torti e ragioni, nel caso della guerra del Caucaso la maggiore potenza russa, e la sua determinazione nel perseguire i propri obiettivi anche a scapito del diritto internazionale e degli inviti della maggioranza degli Stati, rappresentano infatti di gran lunga il problema principale. La Russia ha risposto alla crisi in Sud Ossezia con una forza sproporzionata, ha cercato di ottenere la caduta del regime democratico georgiano ha esteso l’area dei combattimenti all’Abkazia, è penetrata nel territorio non conteso e bombardato le città della Georgia, rifiutandosi poi di ritirarsi nei termini dell’accordo che aveva appena firmato, e ha infine dichiarato - unilateralmente e illegalmente - l’indipendenza delle due regioni, accusando gli Stati Uniti di aver orchestrato un’aggressione. Per questo comportamento inaccettabile non è sufficiente esprimere «rammarico», come ha fatto il Ministro Frattini con il sostanziale appoggio dell’onorevole Fassino, che ha invece invocato una nuova Helsinki per negoziare con la Russia.
È giunto invece il momento di interrogarci a fondo sui rapporti con la Russia dell’Italia e delle istituzioni - Nato e Ue in testa - di cui l’Italia fa parte. In primo luogo, ci siamo a lungo illusi che la Russia fosse diventata una potenza democratica e responsabile, ed infatti ci sono stati dei progressi in questo senso. Allo stesso tempo però, abbiamo forse troppo spesso chiuso gli occhi di fronte alla repressione in Cecenia e nei confronti delle altre minoranze in seno alla federazione, e nei confronti di ogni opposizione. Ora che questi metodi violenti e spregiudicati non sono più confinati all’interno della Russia, ma vengono utilizzati con uno stato sovrano, non è più possibile ignorarli. In secondo luogo, la crisi delle ultime settimane ha dimostrato un cambiamento della strategia russa non solo nel Caucaso, ma anche nei confronti delle altre Repubbliche ex sovietiche e dell’Occidente. La Russia ha minacciato ritorsioni contro eventuali sanzioni e contro l’installazione di missili americani in Europa, e ha ventilato la possibilità di un’alleanza destabilizzante con la Siria. In terzo luogo, sebbene alcuni paesi abbiano mantenuto una certa cautela, una crescente ondata di condanna delle posizioni russe è cresciuta nelle ultime settimane, che comprende gli Stati Uniti e - in Europa - la Gran Bretagna e gli Stati che hanno aderito recentemente all’Unione Europea (Baltici e Polonia in testa), e alla quale l’Italia deve una risposta.
Ci saremmo quindi aspettati una posizione più netta dell’Italia, che segnalasse, ovviamente senza una rottura nei rapporti con la Russia, una maggiore preoccupazione. Siamo invece il paese che, nelle discussioni con gli alleati, ha tenuto la posizione più filo-russa di tutti, e non è un caso che il Presidente Medvedev si sia sentito in dovere di ringraziare il nostro paese in un’intervista televisiva al Tg1. La familiarità tra il Presidente del Consiglio e la leadership del Cremlino può essere un’opportunità solo se è utilizzata per rafforzare la posizione di chi vuole convincere la Russia a interrompere la sua politica aggressiva, mentre è un’occasione persa - per l’Italia, ma anche per Berlusconi - se l’amicizia dovesse essere percepita come un elemento di indebolimento del fronte occidentale e di acquiescenza di fronte a comportamenti destabilizzanti per il sistema internazionale. Sotto questo aspetto, anche la posizione del Pd è deludente, in quanto rinuncia ad incalzare il governo su un tema così importante. Il Cremlino, ci pare, non ha bisogno di difensori d’ufficio. Ci sono ben altri temi sui quali varrebbe la pena di impostare un dialogo bipartisan per il bene del paese. Quello di una sostanziale capitolazione al nuovo, e pericoloso, corso della politica estera russa non è, a nostro avviso, tra questi.
Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini
(C) Corriere della Sera
(C) Corriere della Sera