Perché siamo in Afghanistan
Nel caso dell'Italia, come per certi aspetti in quello della Germania, esistono peculiarità che hanno condizionato la politica dei governi. Il Paese è stato malamente sconfitto durante la Seconda guerra mondiale e ha sviluppato da allora una «cultura della pace» in cui si sono confuse componenti diverse: pensiero cattolico, neutralismo, odio per gli Stati Uniti e una concezione dogmatica dell’articolo della Costituzione in cui l’Italia «ripudia la guerra». I governi hanno dovuto venire a patti con questi sentimenti e hanno creduto di risolvere il problema mandando «truppe di pace» in teatri di guerra. E per di più, come se il tasso d’ambiguità non fosse già sufficientemente elevato, hanno ridotto i bilanci delle Forze Armate al limite della sopravvivenza. È questa la ragione per cui la perdita di un soldato, quando accade, appare alla società italiana molto più inattesa, incomprensibile e assurda di quanto non appaia in Paesi dove i governi hanno parlato alla loro opinione pubblica con maggiore chiarezza e hanno fornito ai loro soldati le armi di cui avevano bisogno. Forse è giunta anche per il governo italiano l’ora di dire francamente perché siamo in Afghanistan e quali siano i rischi da correre. L’ambiguità, dopo i fatti di Kabul, offende il Paese e i suoi morti.