19 settembre 2009

Perché siamo in Afghani­stan

Nel caso dell'Italia, co­me per certi aspetti in quel­lo della Germania, esistono peculiarità che hanno con­dizionato la politica dei go­verni. Il Paese è stato mala­mente sconfitto durante la Seconda guerra mondiale e ha sviluppato da allora una «cultura della pace» in cui si sono confuse componen­ti diverse: pensiero cattoli­co, neutralismo, odio per gli Stati Uniti e una conce­zione dogmatica dell’artico­lo della Costituzione in cui l’Italia «ripudia la guerra». I governi hanno dovuto ve­nire a patti con questi senti­menti e hanno creduto di ri­solvere il problema man­dando «truppe di pace» in teatri di guerra. E per di più, come se il tasso d’ambi­guità non fosse già suffi­cientemente elevato, han­no ridotto i bilanci delle Forze Armate al limite della sopravvivenza. È questa la ragione per cui la perdita di un soldato, quando acca­de, appare alla società italia­na molto più inattesa, in­comprensibile e assurda di quanto non appaia in Paesi dove i governi hanno parla­to alla loro opinione pubbli­ca con maggiore chiarezza e hanno fornito ai loro sol­dati le armi di cui avevano bisogno. Forse è giunta an­che per il governo italiano l’ora di dire francamente perché siamo in Afghani­stan e quali siano i rischi da correre. L’ambiguità, do­po i fatti di Kabul, offende il Paese e i suoi morti.
Sergio Romano,
un po' di chiarezza