20 settembre 2009

Piero Jahier è stato una splendida meteora della letteratura italiana

Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri / e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita, / Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno / che non sa perché va a morire”. L’autore di questi versi senza tempo è Piero Jahier, splendida meteora della letteratura italiana novecentesca. Presto “dimenticato” dalla cultura istituzionale, Jahier ha trovato un fedele studioso ed estimatore nel professor Paolo Briganti, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Parma: sarà lui a guidarci alla riscoperta di questo “poeta scomodo”, dalle “inusuali radici culturali protestanti”.

Professore, se è d’accordo partirei dalla ricezione di Jahier da parte del pubblico e della critica. Come sono state accolte le sue opere nel primo dopoguerra?

Se si esclude il suo primo libro, Resultanze in merito alla vita e alle opere di Gino Bianchi – che esce nel 1915 e che, essendo una satira dell’universo impiegatizio statale, si leggeva ancora all’interno dell’atmosfera antiborghese, soprattutto “anti-piccolo-borghese”, della «Voce» (mentre però intanto l’Italia entrava/era in guerra) –, gli altri due libri, Ragazzo e Con me e con gli alpini, entrambi pubblicati nel 1919, escono in un’atmosfera letteraria già distantissima dai canoni vociani (che volevano dire tensione morale e sprezzature stilistiche, fino a certe punte espressionistiche di Rebora, ma anche dello stesso Jahier): quelli dell’immediato dopoguerra sono infatti gli anni della «Ronda», del ritorno all’ordine e all’equilibrio, della pagina scritta in punta di penna, dei calligrafismi… E, nel versante della poesia, quella di Jahier (e dei vociani in genere) era l’esatto contrario della poesia “pura” primonovecentesca e del successivo ermetismo, padrone incontrastato negli anni Trenta e primi Quaranta, ma, quale ambigua eredità, imperante anche per tutti gli anni Cinquanta (e un poco oltre).

Negli anni seguenti, fatta eccezione per la riedizione delle sue opere negli anni Sessanta, Jahier entra a pieno titolo nella schiera dei “dimenticati”… Perché?

Jahier s’era rifiutato decisamente di collaborare col fascismo, così venne tacitato, costretto al silenzio (non scrisse più, di fatto). Solo forse Con me e con gli alpini, grazie al tema “militare”, continuò a circolare nel Ventennio, ma in qualche caso si arrivò – pare – a ritenere che l’autore fosse morto, considerato che di lui non si sapeva più nulla. La riedizione delle sue opere (riviste dall’autore stesso) generò un trasalimento d’interesse per il “moralista” Jahier; ma già sullo scorcio finale di quello stesso decennio (frattanto Jahier era morto, nel novembre del 1966), la voga culturale oltranzisticamente “rivoluzionaria” non fu più disponibile all’ascolto di chi era stato appena bollato, e con evidente disprezzo, come “populista”. Insomma Jahier, che non era andato bene agli uni, non andava bene neppure agli altri. Regimi, mode…

Passando alla vita dell’autore, a colpire è prima di tutto la sfera religiosa. Il padre di Jahier era un pastore protestante, e lo scrittore frequentò per due anni la facoltà di Teologia di Firenze. Quale ruolo ha giocato la spiritualità nella sua formazione e nella sua poetica?

L’esser cresciuto nell’ambito di una cultura e una “visione del mondo” caratterizzate dal senso della responsabilità individuale e del dovere segnò profondamente la sua formazione morale e intellettuale; ma il traumatico suicidio del padre (quando Piero era solo tredicenne) dovette alimentare nel tempo – credo proprio – un grumo di ribellione sottopelle, tale da provocare più avanti in lui la perdita della fede, col coerente abbandono degli studi teologici intrapresi, studi che lo avrebbero condotto a diventare, anche lui come il padre, pastore. E si trattava – si badi – di abbandonare un “comodo” alveo esistenziale per immettersi nella fatica d’un lavoro pratico quotidiano, scelto e accettato però anche questo “religiosamente” quale «fatica d’Adamo»: un modo per uscire ufficialmente dagli apparati religiosi per continuare a praticare comunque una sua religiosità immanente, quella del mondo (Conversione al mondo era il titolo, poi non utilizzato, d’una sua opera). Più che di “spiritualità” parlerei dunque di un’ardua moralità e di senso religioso dell’esistenza: si trattava di una strenua accettazione del peso della vita e d’una fiera difesa dei valori della semplicità, della schiettezza, della povertà; con evidenti ricadute, ovviamente, anche nella sua poetica.

La giovinezza di Jahier è segnata poi dalla collaborazione con “La Voce”. Cosa ha trovato lo scrittore nella rivista letteraria fiorentina?

Nella «Voce» trovò anzitutto – direi – l’idea di una cultura non “accademica” né “teorica”, colse insomma una prospettiva culturale molto “pratica”: per una cultura, cioè, dentro la società reale, coi temi e problemi dell’Italia di allora, da discutere e affrontare per trasformare la società stessa; una cultura che non doveva essere strettamente “disciplinare” (letteratura / arte / filosofia…), ma fondata su un’idea unitaria di “uomo intero”, immerso appunto nella vita pratica quotidiana. Non dico che tutti i vociani poi condividessero a tutto tondo quest’idea, che è soprattutto molto jahieriana, ma penso che questo fosse ciò che Jahier – il “ferroviere” Jahier, con la sua vecchia fede alle spalle e col suo fardello d’Adamo – vide nella disponibilità e nel “praticismo” di Prezzolini.

Quali erano, all’epoca, i suoi punti di riferimento intellettuali?

Oltre alla Bibbia (protestante) – che comunque restava attivamente in background –, suoi autori di studio e personale discussione furono soprattutto Proudhon e Claudel; ma anche Charles Péguy, Walt Whitman e Francis Jammes.

A “La Voce” è legato anche l’esordio letterario del giovane Jahier: è la casa editrice della rivista a pubblicare l’opera prima dello scrittore, “Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi”. Come nasce e cosa racconta quest’opera?

Quel suo primo libro del 1915 è una satira dell’uomo-impiegato. In quegli anni «La Voce» aveva inaugurato una rubrica, “Lettere dalla Beozia” – di gestione più o meno collettiva (ma tra tutti era Soffici a contribuirvi maggiormente) – firmate da un fittizio “Gino Bianchi”, che propugnava idee banalmente e insopportabilmente piccolo-borghesi e perbenistiche nei confronti dell’arte e della vita in genere: era, insomma, quel che i vociani consideravano appunto “un beota”. Jahier, che portava frattanto la sua personale croce impiegatizia, si impadronì del fantoccio Gino Bianchi e gli diede una più precisa identità, facendolo impiegato delle ferrovie (cioè un suo collega) e trattandone la vita come se compilasse il burocratico fascicolo personale di una biografia tutta incasellata e prevedibile. È un libro che può risultare ancora molto divertente e istruttivo. Senza contare che, ogni tanto, si leva – con grande respiro, a contrasto – il controcanto disperato dello stesso Jahier, che rugge la propria urgenza di poesia, la propria aspirazione a un’esistenza non pre-confezionata, ma vera e libera.

All’origine dell’opera più importante di Jahier, “Con me e con gli alpini”, c’è invece la prima guerra mondiale…

La prima guerra mondiale è lo sfondo circostanziale appunto di Con me e con gli alpini, una sorta di diario di guerra in cui Piero Jahier, tenente istruttore degli alpini, racconta il suo rapporto con le reclute a lui affidate: sono soldati trentenni, come lui, che hanno magari famiglia e pochi grilli per il capo, montanari abituati alla fatica della vita quotidiana: prima la vanga o il piccone per terre aspre e dure, o addirittura in terra straniera, ora il fucile e le marce per… la patria. Già: la patria, è concetto astratto, difficile; ma il tenente lo traduce per loro come famiglia, casa, paese, amicizia, solidarietà esistenziale. E, alla fine, anche il tenente istruttore avrà molto appreso dai suoi coetanei montanari: la schiettezza d’animo e la disposizione alla fatica e al sacrificio. La guerra è intorno, ma il libro parla soprattutto di semplici e grandi sentimenti di un gruppo d’uomini-fratelli.

Nel corso del Ventennio, come abbiamo detto, l’antifascista Jahier si isola e continua a lavorare come traduttore: come ha vissuto questa nuova “missione”?

Jahier, dopo quasi vent’anni di silenzio imposto quale autore, colse il destro della traduzione (L’importanza di vivere di Lyn Yutang uscì da Bompiani nel 1939) come una straordinaria conquista liberatoria: «parlare per bocca di terzi», così definiva la propria attività di traduttore; che divenne poi prioritaria dopo la Liberazione (come se per troppo silenzio si fosse affiochita la sua voce personale, o prosciugata la vena in proprio… chissà).

Negli anni Sessanta Jahier ha ripubblicato le sue opere con Vallecchi: quali cambiamenti ha apportato alle sue opere giovanili?

Jahier intervenne, non da filologo o storico, ma da autore, modificando liberamente: riaggiornò ad esempio il Gino Bianchi, mostrandocene anche la “naturale” fascistizzazione durante il ventennio. E mise insieme un libro,Poesie, raccogliendo i propri testi poetici degli anni vociani, testi che, sparsi in rivista, non avevano mai costituito un volume. Su questi componimenti i suoi interventi furono talora radicali: ad esempio, dalla prosa poetica di cinquant’anni prima, alla versificazione del 1964. Su questo aspetto si scatenarono, a suo tempo, i critici, ritenendo l’operazione illecita, quasi una falsificazione storica. Io credo (o m’illudo) di aver riportato il problema a più tranquille – umane e filologiche, e ragionevoli – considerazioni.

Da professore di letteratura, come definirebbe il Jahier poeta?

Magari la definizione non è troppo accademica (mi fa certo velo un lunghissimo affetto per la sua figura)… In fondo ripeterei quel che risposi a una domanda simile quarant’anni fa, durante la discussione della mia tesi, e cioè che Jahier è sempre stato, in un modo o nell’altro, un poeta scomodo; inusuale oltretutto per il panorama italiano, sia per le sue inconsuete radici culturali protestanti, sia per il «calor bianco» (l’espressione è sua) che raggiunge spesso la sua pagina – sempre in bilico tra poesia e prosa – fino all’espressionismo (e anche l’espressionismo da noi non è, o non era, proprio frequente, vero?).

Quale opera consiglierebbe per avvicinarsi allo lettura di Piero Jahier?

Come avvicinamento direi senz’altro Ragazzo (che, fra l’altro, per me è il suo libro più bello): è un’autobiografia lirica affascinante, stilisticamente molto particolare, in cui il “ragazzo”, più che narrare, ci fa rivivere anzitutto il trauma del suicidio paterno, e poi la perigliosa traversata degli anni adolescenziali, quelli da cui, quando se n’esce, ci si sente come dei naufraghi scampati. Alla fine il ragazzo-uomo avrà maturato la propria dolorosa-necessaria separazione, materiale e morale, da quel passato amato e tormentoso, e, ritornando da adulto al paese avito, neppure le millenarie montagne potranno più riconoscerlo come figlio.

E lei, professore, a quale opera si sente più legato?

Io, personalmente, mi sento ancor più legato alle sue poesie: il fatto è che ci ho lavorato un bel po’ e con molti rovelli critici e filologici; che alla fine credo di aver risolto in modo soddisfacente, se è vero che un critico come Silvio Ramat ha scritto tra l’altro che l’«anomalia di Jahier» consiste anche nel fatto che, «in una ricostruzione ipotetica del Novecento “per titoli esemplari”, il suo “titolo” principale di riferimento rischia di essere, una volta tanto, quello di un libro inesistente», «o meglio una “raccolta” disponibile dall’81 (Poesie in versi e in prosa, Einaudi)». Quella mia edizione critica, naturalmente esauritissima, pare sia frequentemente richiesta da studiosi e studenti: eppure nessun editore me ne ha mai proposto la ristampa. Vorrà dire qualcosa?

L'Occidentale