27 luglio 2010

Washington Post e WikiLeaks / Più che scoop, semplici conferme

L’estate 2010 ci regala due scoop. Il primo, a firma Dana Priest e William M. Arkin del “Washington Post”, si intitola “Top Secret America” e denuncia la crescita esponenziale degli apparati di sicurezza statunitensi in seguito agli attentati dell’undici settembre: tra compagnie pubbliche e private, spiega il quotidiano, Washington è sommersa da migliaia di report spesso contrastanti, e non è in grado di valutare con efficacia le minacce che pendono sulla testa degli americani. Il secondo scoop è invece il frutto della collaborazione di un sito internet, WikiLeaks, con tre organi di stampa - “New York Times”, “The Guardian” e “Der Spiegel” - e consiste nella pubblicazione di oltre 90.000 documenti riservati sulla guerra in Afghanistan dal 2004 al 2009, “war logs” da cui emergono il sostegno fornito dall’intelligence pakistana e iraniana ai talebani, l’occultamento di stragi di civili da parte degli alleati occidentali e la crescente capacità combattiva degli insorti afghani.

Apparentemente, i due casi hanno poco in comune. Lo scoop del “Washington Post” è frutto di un’inchiesta tradizionale e accurata, durata due anni e finita sulle pagine - cartacee ed elettroniche - di uno dei quotidiani più prestigiosi al mondo. Le rivelazioni contenute nei “war logs”, invece, sono ancora avvolte dal mistero: l’amministrazione americana era all’oscuro di quanto stava per pubblicare un sito internet fondato da un ex hacker australiano? Chi c’è dietro alla caduta di una mole immensa di documenti riservati nelle mani di Julian Assange, che a sua volta ha offerto i report a tre grandi giornali americani ed europei? Difficile dirlo, forse non lo scopriremo mai. “Top Secret America” e i “war logs”, va da sé, differiscono anche per i contenuti: da un lato veniamo a conoscenza dell’apparato di sicurezza americano, del funzionamento delle sue sedi sparse per tutti gli Stati Uniti; dall’altro entriamo nell’Afghanistan quotidiano, con tutto ciò che la guerra - e gli interessi politici in gioco nell’area - comporta.

Eppure, “Washington Post” e WikiLeaks hanno almeno una cosa in comune: più che fornire classici “scoop”, come la pubblicazione dei Pentagon Papers o lo scandalo Watergate negli anni settanta, hanno confermato - documenti alla mano - ciò che sapevamo già da anni. Che gli uffici di sicurezza americani producessero così tante informazioni da renderle inutilizzabili non è certo una novità, e lo scorso Natale ne abbiamo avuto la conferma: nessuno ha fermato il nigeriano Abdul Farouk Abdulmutallab, protagonista del fallito attentato sul volo Delta Amsterdam-Detroit, nonostante il padre del ragazzo avesse personalmente informato l’ambasciata americana in Nigeria sulla pericolosità del figlio. Lo stesso vale per i “war logs”: che l’intelligence pakistana faccia il doppio gioco, che i talebani siano ben armati e capaci, che l’Iran addestri i terroristi sono fatti noti e denunciati da tempo da svariati reporter e analisti. Più che scoop, insomma, semplice - e preziosa - documentazione. Per dirla con Remarque, non c’è niente di nuovo sul fronte occidentale.

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