02 settembre 2010

Netanyahu e Abu Mazen si stringono la mano ma per la tregua servirà un anno

Dopo i fallimenti di Bill Clinton e George W. Bush, il futuro del conflitto israelo-palestinese passa nelle mani di Barack Obama. Il presidente ha convocato a Washington il premier israeliano Netanyahu e il presidente dell’Anp Abu Mazen, insieme al presidente egiziano Mubarak e al re di Giordania Abdullah, perché dopo mesi di gelo diplomatico i protagonisti della regione tornino a parlarsi direttamente. A dare il via al primo round di negoziati, tra le pareti del Dipartimento di Stato, è stata Hillary Clinton, che ha preso la parola alle 10.20 (ora di Washington): “Venendo qui oggi, ognuno di voi ha compiuto un passo importante per liberare i vostri popoli dalle sofferenze di una storia che non possiamo cambiare, e per incamminarci verso un futuro di pace e dignità che solo voi potete realizzare”. La Clinton ha ribadito il completo supporto da parte dell’amministrazione Obama: “Noi crediamo che si possa giungere ad un accordo, ma solo voi potete prendere le decisioni necessarie per assicurare un futuro di pace agli israeliani e ai palestinesi”.

Netanyahu, che ha preso la parola dopo il segretario di Stato americano, ha ammesso che l’impresa non sarà facile. “Una pace vera e definitiva si potrà raggiungere solo con dolorose concessioni da entrambe le parti”, ha osservato il premier, secondo il quale “è indispensabile un reciproco riconoscimento da parte dei nostri Paesi”. Sarà la sicurezza dello Stato ebraico, ha concluso Netanyahu, la condizione irrinunciabile per giungere ad un accordo tra le parti. Abu Mazen, dal canto suo, ha detto di essere pronto a discutere su tutti i temi all’ordine del giorno, a patto che Israele metta fine alla costruzione degli insediamenti nei territori palestinesi e all’embargo della Striscia di Gaza: “La sicurezza è fondamentale per entrambi”, ha continuato il leader dell’Anp, “e non permetteremo che qualcuno la metta in discussione”. Al termine delle rispettive dichiarazioni, i leader si sono stretti la mano dando il via alla prima riunione con i rispettivi team di negoziatori, guidati da Saeb Erekat - dirigente di lungo corso dell’Anp, e già protagonista del summit di Annapolis del 2007 - e Yitzhak Molcho, giurista e stretto collaboratore del premier israeliano.

Nei giorni precedenti all’incontro, l’amministrazione Obama aveva illustrato il progetto americano. “Non pensiamo di raggiungere la pace dopo un solo incontro”, ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato J.P. Crowley, “ma vogliamo lanciare un processo vigoroso che vedrà protagonisti i due leader, affiancati dalle loro squadre di negoziatori e dall’impegno degli Stati Uniti, supportati da altri paesi della regione”. Quando verrà raggiunto un accordo? “Entro un anno”, dice Crowley, “questo è il nostro obiettivo”. Mercoledì sera, nella corso di una cena alla Casa Bianca, Obama ha rispolverato la sua retorica visionaria: “Troppo sangue è già stato versato, troppi cuori sono già stati spezzati. Questa opportunità potrebbe non ripresentarsi troppo presto”. E gli invitati, racconta il “New York Times”, non sono stati da meno: Netanyahu si è voltato verso il rappresentante dei palestinesi definendolo “partner di pace”, mentre Abu Mazen ha assicurato che ce la metterà tutta “nonostante le difficoltà che incontreremo a partire da domani”.

Ma se i buoni propositi non mancano, lo scetticismo è d’obbligo. Sulle trattative pende innanzitutto la spada di Damocle del 26 settembre: quel giorno, infatti, scadrà il congelamento degli insediamenti nel West Bank imposto dal premier israeliano. Netanyahu, pressato in patria dai partiti alleati, ha escluso un’estensione della misura restrittiva, e Abu Mazen ha lasciato intendere che se gli insediamenti riprenderanno potrebbe alzarsi definitivamente dal tavolo dei negoziati. Posto che il processo di pace prosegua, restano comunque molti scogli: tra confini, insediamenti e diritto al ritorno dei profughi, il più arduo da aggirare resta lo status di Gerusalemme. Il governo Netanyahu considera la Città Santa capitale unita e indivisibile dello Stato ebraico, mentre i palestinesi rivendicano la sovranità su Gerusalemme Est, la parte a maggioranza araba della capitale. Al di là delle timide aperture del ministro della Difesa israeliano Barak, difficilmente le due parti riusciranno a trovare un punto d’incontro.

Determinante sarà infine la leadership dei protagonisti, ma Netanyahu e Abu Mazen appaiono in questo senso molto deboli. Il primo deve fare i conti con i partiti più estremisti della propria coalizione, contrari ad ogni tipo di concessione. Per comprendere il clima che si respira in Israele bastino le recenti uscite di Ovadia Yosef, capo spirituale del partito ortodosso Shas (4 ministri, 11 deputati alla Knesset): “Abu Mazen e i palestinesi devono morire”, ha predicato il rabbino, per poi augurarsi che “Dio mandi la peste” contro “i nemici malvagi e implacabili di Israele”. Abu Mazen, invece, ha l’enorme problema di Hamas: il partito islamista non si è limitato a condannare verbalmente ogni possibile accordo col nemico, ma ha rivendicato due attentati contro i coloni israeliani in Cisgiordania (martedì, 4 morti; mercoledì, 2 feriti) minacciandone di nuovi. Come ha scritto Moshe Arens su “Haaretz”, al leader dell’Anp manca insomma il sostegno di gran parte della sua gente: “Arafat avrebbe potuto fare la pace con gli israeliani, ma non voleva. Abbas potrebbe anche volere la pace con i palestinesi, ma non può ottenerla”.

L'Occidentale