04 ottobre 2010

Obama fa pace con "Rolling Stone" per riconquistare i giovani democrats

È il luglio del 2008 quando la strada di Barack Obama, candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, si incrocia per la prima volta con la rivista “Rolling Stone”, fondata nel 1967 da Jann S. Wenner. Pochi mesi dopo, a ottobre, il futuro presidente rilascia un’altra intervista alla Bibbia del Rock, molto in voga tra i potenziali giovani elettori democratici. “Rolling Stone”, però, non guarda in faccia a nessuno, e nel giugno del 2010 - lo ricorderete - va in edicola con un lungo ritratto-intervista del Generale McChrystal, comandante delle truppe a stelle e strisce di stanza in Afghanistan: l’articolo, firmato dal bravo Michael Hastings, contiene una serie impressionante di critiche all’operato dell’amministrazione Obama. Risultato? McChrystal viene (comprensibilmente) silurato, e il Generale David Petraeus prende il suo posto.

Ora Obama - alle prese con mille problemi, tra Tea Parties, Afghanistan e consensi costantemente in calo - torna a parlare con “Rolling Stone”. La scelta è azzeccata: in vista delle elezioni di mid-term, la copertina dell’influente magazine di San Francisco è un mezzo per parlare ai “supporter” che due anni fa, sull’onda dell’entusiasmo, hanno consegnato al senatore dell’Illinois le chiavi della Casa Bianca. Oggi molti di quei giovani sono disillusi, e la scommessa - in casa democratica - è portarli nuovamente alle urne: l’intervista concessa al direttore Jann S. Wenner tocca tutti i temi all’ordine del giorno, dalla guerra afgana all’avanzata dei repubblicani, dalle cose fatte nel biennio passato alle difficoltà quotidiane di un comandante in capo. Senza tralasciare la musica: gli artisti più ascoltati dal presidente, per la cronaca, sono Stevie Wonder, Bob Dylan e i Rolling Stones.

Alla luce del caso McChrystal e delle rivelazioni contenute nel nuovo saggio di Bob Woodward, in libreria in questi giorni, i passaggi più attesi dell’intervista sono quelli riguardanti l’Afghanistan. Nei confronti dell’ex-capo delle truppe americane, Obama si mostra conciliante: “Credo che il Generale McChrystal sia un uomo valido, un grande soldato che ha servito molto bene il suo paese. Non credo che nelle sue critiche ci fosse cattiveria”, osserva il presidente, convinto che molte delle critiche contenute nell’articolo di Hastings siano “da attribuire al suo staff: certo il Generale non è stato servito molto bene...”. L’allontanamento, però, era inevitabile: chi è responsabile della vita di 100.000 giovani, spiega Obama, non può permettersi alcuna leggerezza. E McChrystal, in questo senso, ha decisamente passato il segno.

Per il presidente, la guerra in Afghanistan è legittima in quanto “da lì si è propagata la minaccia terroristica”. A partire dal luglio 2011, spiega Obama, gli Stati Uniti cominceranno un “processo di transizione” e, se la strategia in atto non funzionerà, “la riesamineremo finché non avremo un progetto valido”: parole più possibiliste di quelle contenute nel libro di Woodward, “Obama’s Wars”, che trasmette l’immagine di un comandante in capo intransigente sulla scadenza del luglio 2011, data in cui Washington comincerà a ritirare le proprie truppe. In ogni caso, per risolvere definitivamente la questione, occorreranno diversi anni: Obama lo sa, e lo ribadisce. Non manca, comunque, una stoccata al suo predecessore: se Bush non fosse andato a Baghdad e si fosse concentrato su Kabul, cominciando subito a ricostruire il paese, “ora non saremmo in questa situazione”.

Anche quando Jann Wenner tocca il tema della politica bipartisan, presto naufragata, Obama punta il dito contro l’opposizione. Sul fronte economico, osserva il presidente, l’unico progetto del GOP sembra essere quello “di tagliare le tasse agli americani più ricchi”, senza preoccuparsi della crescita e del sostegno all’occupazione. Per quanto riguarda i Tea Parties, invece, Obama è cauto: “Molti cittadini - spiega - sono davvero arrabbiati, frustrati e preoccupati a causa della peggior crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione”. Intercettando questo malcontento, continua il presidente, il movimento dei Tea Parties “si sta trasformando in forza politica rilevante per queste elezioni”. Parole (quasi) concilianti anche per l’odiata Fox News: “Non condivido il suo punto di vista, ma è un’impresa economica di straordinario successo”.

Presidente, chiede a un certo punto Wenner, perché i suoi sostenitori della prima ora sono delusi? Peculiarità dei progressisti, scherza Obama, è quella di vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, di non accontentarsi mai. “Quando giro per il paese, dico sempre ai democratici: ‘Su con la vita, gente. Abbiamo portato a casa una serie incredibile di risultati tra le peggiori avversità immaginabili’”. E allora, cosa ha fatto di buono l’amministrazione Obama, secondo Obama? Il presidente vanta il merito di aver evitato una Grande Depressione, di aver messo fine a una guerra, di aver approvato la riforma sanitaria, di aver investito più di chiunque altro in ricerca e innovazione. Come spiegare, dunque, il calo di consensi? Con l’incremento della povertà e della disoccupazione, dovuti alla grande crisi, che hanno ridotto l’impatto delle riforme sulla gente.

Il problema, in vista delle consultazioni di mid-term, è che gli elettori votano in base alla qualità della propria vita: se è vero che gli effetti di alcune riforme si sentiranno solo tra qualche anno, è difficile vantarle come un merito a fronte dei propri sostenitori. Una cosa, del resto, Obama l’ha capita molto bene: fare il presidente degli Stati Uniti è un lavoro duro, perché “se un problema è di facile soluzione, non finisce sulla mia scrivania. Se c’è una soluzione semplice, qualcuno l’ha trovata prima di me. Le questioni che transitano sul mio tavolo sono tutte complesse, e certe volte non mi trovo a scegliere tra una cosa giusta e una sbagliata, ma tra due cose giuste”. Il presidente, al di là degli errori commessi, è convinto “di aver mosso il paese in una direzione migliore”: ora non gli resta che convincere gli elettori democratici più moderati, pronti a scendere dal carro obamiano.

L'Occidentale