15 gennaio 2011

Barney, la versione dei critici

Quando è stato presentato al Festival di Venezia, l'accoglienza è stata ottima (si veda la recensione che scrisse a suo tempo Christian Rocca, il più grande esperto italiano di Richler e Barney). Ora che il film tratto da La versione di Barney è uscito in tutti i cinema, i giudizi sono più vari: come la penso io, l'ho scritto nel post precedente; ecco come la vedono alcuni critici.

Sul Corriere della Sera, Paolo Mereghetti loda Paul Giamatti: l’interpretazione dell’attore statunitense è una delle qualità migliori di un film che rischia di venir soffocato, specie in Italia, dal suo ispiratore letterario. Qualche (giusta, ndr) critica alla delocazione da Parigi a Roma per i trascorsi hippy del protagonista che si spiega in termini di coproduzione (con la canadese Serendipity, cofinanzia l’italiana Fandango) ma che lascia qualche inevitabile dubbio, visto che la Roma della quasi Dolce Vita non valeva certo la Parigi capace di attirare dall’America aspiranti scrittori, pittori d’avanguardia (come i due amici di Barney, Boogie e Leo, interpretati da Scott Speedman e Thomas Trabacchi) o "semplici" ribelli alcolico-tabagisti come appunto Barney. Insomma, il film costruito con lo stile anonimo ma efficace della più professionale tradizione hollywoodiana finisce per reggersi tutto sulle spalle del suo protagonista, un grumo di simpatici vizi e scarse qualità, a cui l’interpretazione del sovrappeso Paul Giamatti dà un tocco di inaspettata autenticità. A colpire, più di tutto, resta la vena malinconica e autodistruttiva che sembra guidare il protagonista, più succube che artefice della propria vita (tipica di una generazione diventata matura nel secondo dopoguerra come quella di Richler, convinta di aver diritto alle proprie soddisfazioni ma incapace di liberarsi dei sensi di colpa). Vena che però finisce per soffocare sotto la maschera di programmatica irriverenza che il film fa indossare troppe volte al suo protagonista.

Repubblica affida la critica a Francesco Merlo, secondo il quale - sentite un po' - il film è più bello perché il libro di Mordecai Richler è stato scritto per essere visto: era già una fantasia cinematografica, ma anche perché (pazzesco, ndr) toglie il grasso ad un romanzo troppo lungo, ad un libro-vetrina più recensito che letto. Di sicuro Barney è tale e quale. Ma solo nel film, grazie alla faccia straordinariamente qualunque di Paul Giamatti, se ne capisce il successo. Miele per Miriam, moglie-incanto al centro del manifesto del disincanto: la bellezza raccontata non regge il confronto con la bellezza reale dell'inglese Rosamund Pike che è bella come un assoluto poetico perché dà corpo e colori all'archetipo della moglie rara. In chiusura, attacco alla volgarità imperante dell'Italia berlusconiana: c'è nell'idea (sbagliata) che Barney sia il turpiloquio sventolato come una bandiera una delle ragioni del suo speciale successo in Italia, che è un paese pieno di raffinati intellettuali con le movenze e la lingua dei facchini. È il Paese di Berlusconi che si proclama timorato di Dio e bestemmia in pubblico, di D'Alema che in tv manda "a farsi fottere" un esponente del fish-wrap journalism, è il paese dove parlano sporco anche i grandi imprenditori, come risulta dalle intercettazioni. Non è il paese di Miriam, non è il paese della grammatica e della prosa di Mordecai Richler. Una volta molti giornalisti italiani pensavano di poter scrivere "Per chi suona la campana" bevendo e fumando. Oggi pensano di scrivere come Richler mitragliandoci di male parole. Sarebbe interessante, a questo punto, sapere cosa ne pensa Mordecai. O Barney. Ma passiamo oltre.

Sul Messaggero, Fabio Ferzetti parla di una commedia piacevole e del tutto convenzionale che ha prevedibilmente diviso i fedelissimi dello scrittore. Se per una buona metà quella di Lewis è una commedia come tante, ma con un protagonista molto più interessante del solito, nella parte finale addio cattiveria: il film diventa una commedia comico-sentimentale concentrata sul difficile amore per la bella Miriam (la sempre fulgida Rosamund Pike) e la grandezza “invisibile” di questo antieroe che avrebbe meritato un adattamento meno timido e rispettoso.

Paola Casella, su Europa, scrive chiaramente che per apprezzare appieno il film di Lewis bisogna non aver letto, o non aver molto amato, il best seller di Mordecai Richler. Questo perché nel libro Barney è l’io narrante, e dunque tutto ciò che gli accade viene filtrato attraverso la sua bizzarra sensibilità, il suo caustico umorismo yiddish, la sua visione egocentrica del mondo. Qui Barney è "solo" il protagonista di una storia raccontata da altri, e dunque scompaiono le sue coloratissime invettive e il suo caustico punto di vista, che un regista più autoriale e coraggioso avrebbe trasformato in cinema. Senza contare, aggiunge (incredibilmente, ndr) la Casella, che Giamatti, pur bravissimo interprete, non sembra azzeccato nei panni dell’ebreo nordamericano.

Su Panorama.it, Simona Santoni parla di una commedia divertente, coinvolgente e anche emozionante, anche se non da Oscar: lavoro piacevole con tanti pregi e una narrazione che però non svetta con potenza. A meritare la statuetta, con tanto d'inchino, è invece Paul Giamatti: il quarantatreenne attore americano dalla fronte stempiata e pancetta, è straordinario nei panni di Barney Panofsky, l’uomo medio che riesce a costruirsi una vita tutt’altro che ordinaria. Tra dissipatezze, giovinezza scapigliata negli angoli affascinanti di Roma, matrimoni finiti prima di iniziare, ebbrezze che si dipingono di giallo, follie romantiche da vero amore, senilità e graduale cedere della mente, Giamatti ci regala una recitazione chiassosa e ricca di sfumature. Fantastico, scrive, anche Dustin Hoffman.

Giudizio Universale, a firma Andrea Previtera, scrive che questa sequenza di fotogrammi, questa storia come molte altre, questa commedia un po' più lunga di un paio d'ore, è proprio quella roba là: vita. E come tale funziona splendidamente, portando altrove lo spettatore come il buon cinema dovrebbe sempre fare.