18 dicembre 2011

Hitchens/ L'ultima battaglia di un grande pensatore

Nel 2008 George W. Bush ammise di aver consentito l’uso del waterboarding per estorcere informazioni a sospetti terroristi. “Lo abbiamo fatto – spiegò nel corso di un’intervista all’Abc – per proteggere il popolo americano. Sapevo che il mio team per la sicurezza discuteva di questo e ho approvato”. La pratica in questione consiste nel versare acqua sul volto del sospetto provocandogli una sensazione di annegamento. Seguì un dibattito di portata mondiale: molti intellettuali si chiesero se il waterboarding fosse effettivamente equiparabile alla tortura, e se il suo utilizzo fosse in qualche modo giustificabile ai fini della lotta al terrorismo.

Una mattina di aprile, Christopher Hitchens (d’ora in avanti Hitch) rispose all’appello del direttore di “Vanity Fair” e accettò di sottoporsi personalmente al waterboarding. La sua drammatica esperienza la racconterà quattro mesi più tardi in un articolo epocale intitolato “Credetemi, è tortura”. Secondo Hitch, sul waterboarding sono state raccontate diverse bugie: molti dicevano, infatti, che “simula la sensazione di annegamento. Ma le cose non stanno così. Ti sembra di annegare perché stai annegando”. Hitch si fece anche riprendere: quel video, ancora disponibile su YouTube e sul sito di “Vanity Fair”, resta un documento straordinario.

Cinque anni prima, quando Bush decise di invadere l’Iraq, Hitch – già comunista e socialista – si schierò dalla sua parte: quel regime andava rovesciato, nel nome della democrazia e dei diritti umani. Dall’11 settembre 2001, inoltre, tuonava quotidianamente contro gli “islamofascisti”: loro, disse in un’intervista al “Washington Prism”, non ci danno pace “e neppure noi dobbiamo dargliene. Non possiamo vivere sullo stesso pianeta, e sono contento, perché io non voglio viverci. Non voglio respirare la stessa aria di quegli psicopatici assassini, torturatori, stupratori e abusatori minorili. È questione di ‘o io o loro’. Sono contento di ciò, perché so che saranno loro. È un obbligo e una responsabilità sconfiggerli, ma è anche un piacere. Non lo vedo affatto come un lavoro sporco”.

Al pari di Oriana Fallaci, che con la parabola di Hitch ha molti punti in comune, davanti al crollo delle due torri il polemista britannico era sceso sul campo di battaglia, con una penna al posto del fucile. Memorabile, a questo proposito, la feroce polemica intrattenuta con il linguista Noam Chomsky sulla vera natura dell’Islam. Hitch non aveva niente contro gli islamici in quanto tali, ma ce l’aveva democraticamente con tutte le religioni. Islamici, cattolici, ebrei: l’ateo Hitch, semplicemente, non sopportava che l’uomo potesse sottomettersi a un’entità astratta chiamata Dio (si veda il saggio “Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa”, edito in Italia da Einaudi. Ad aprile, la casa editrice torinese pubblicherà la sua ultima opera biografica “Hitch 22”).

Probabilmente la storia ricorderà Hitch proprio per le sue crociate contro la religione. Nel 2007, nel corso di un dibattito pubblico con il reverendo Al Sharpton, ricordò di aver scoperto di non credere “a scuola, quando la maestra mi disse che era stato Dio a fare le foglie verdi. Pensai che era una stupidaggine. La religione viene dall’infanzia della nostra specie, quando non sapevamo dell’esistenza dei microrganismi o come si generavano tuoni e terremoti. Le malattie erano considerate maledizioni. Eravamo primitivi, aggrappati ai miti che ritroviamo nella Bibbia”. Del resto, sosteneva Hitch, se la Bibbia avesse ragione “dovremmo pensare che è giusto uccidere chi non la pensa come noi, sterminare le altre tribù, rendere schiavi i prigionieri, impossessarsi di proprietà altrui e torturare i bambini disobbedienti”.

Va da sé che i suoi riferimenti erano altri: Galileo, Spinoza, Paine, Voltaire, Jefferson, Russell, Einstein, campioni della scienza e della razionalità. Grandi personaggi dai quali Hitch imparò ad amare la verità, a ricercarla, liberandosi dei luoghi comuni. Nella sua vita, Hitch ha scritto libri articoli molto pesanti contro personaggi considerati intoccabili: è il caso di Madre Teresa di Calcutta (contro la quale Hitch interpretò il ruolo di avvocato del diavolo nella causa di beatificazione) e Ghandi. Si poteva essere d’accordo con lui, o contrastare risolutamente le sue tesi. Ma il fatto è che Hitch – sempre e comunque “contro” – era un uomo di rara intelligenza. Ogni suo articolo suscitava un dibattito, scandalizzava i benpensanti, incrementava le fila dei suoi ammiratori: impossibile, in ogni caso, che le sue parole lasciassero indifferenti. Hitch, come la Fallaci, era uno spirito libero: se ne fregava delle caselle destra, sinistra, democratico, repubblicano, era semplicemente Hitch, con la sue idee e le sue battaglie da combattere.

L’ultima è stata forse la più difficile: un cancro all’esofago, che gli ha lasciato poco più di un anno di vita. Hitch ha scritto finché ha potuto, devastato dalla chemioterapia e circondato dall’amore dei suoi amici più cari. Poi è morto, lasciando orfani i suoi lettori e i giornali per cui scriveva. D’ora in avanti, come accade quando perdiamo un grande pensatore, potremo solo chiederci “cosa avrebbe detto Hitch?” senza però ottenere risposta. Per lui, ovviamente, dopo la morte c’era solo il vuoto. Ma se così non fosse, non mi stupirei di vederlo in paradiso con un dito puntato contro Dio: “Tu non puoi esistere, devi essere un’allucinazione”. Ciao Hitch, ci mancherai.

ilDemocratico.com