18 dicembre 2011

Steve Jobs/ Cosa ci insegna la sua biografia


Vita, morte e miracoli. Ma anche errori e ombre. C’è davvero di tutto nella biografia di Steve Jobs firmata Walter Isaacson: all’autore sono servite più di seicento pagine per scavare nella personalità del fondatore di Apple, intervistando molte persone che lo hanno conosciuto da vicino. I fanatici della mela morsicata troveranno pane per i loro denti: la storia del Jobs imprenditore è dipanata da Isaacson nei minimi dettagli, dal sodalizio con Steve Wozniak (che porterà alla nascita dell’Apple I) al lancio planetario dell’iPad 2. Ma anche chi non ha mai acceso un computer troverà spunti interessanti che vanno oltre la tecnologia, per toccare i tasti della vita e della morte. Quelle che seguono sono alcune pillole della filosofia di Jobs: un “vangelo”, sia chiaro, del tutto personale. Come accade per ogni grande uomo, del resto, ci sono al mondo tanti Steve Jobs quante sono le persone che lo ammirano.

L’America è un grande paese. Jobs non era particolarmente patriottico. Amava gli Stati Uniti, certo, ma allo stesso tempo amava profondamente il Giappone e la vecchia Europa. L’impressione che si ricava dalla sua biografia, però, è che solo in America un bambino adottato – e senza troppi mezzi – potesse diventare quello che è diventato. È la filosofia americana dell’eccellenza, del merito, delle sfide impossibili – come quella che ha portato l’uomo sulla luna – ad aver consentito alla Apple di nascere e prosperare in tutto il mondo. E pensare che per Jobs tutto ciò non era sufficiente: quando incontrò il presidente Obama, pochi mesi prima di morire, lamentò l’eccessiva burocrazia che imbriglia le aziende, costringendole a produrre altrove. No, in Italia la Apple non sarebbe mai potuta nascere.

L’incrocio tra tecnologia e scienze umane. Siamo sempre stati abituati a pensare alla tecnologia – e in particolar modo ai computer – come a delle macchine fredde e grigie, assemblate da ingegneri senza fantasia. Apple, in questo senso, ha operato una rivoluzione copernicana: negli stabilimenti californiani, gli ingegneri hanno lavorato a stretto contatto con gli artisti. I designer, alla Apple, sono importanti tanto quanto i progettisti di circuiti, se non di più. Per cambiare il mondo, scienza e arte devono incontrarsi come hanno fatto in Leonardo da Vinci prima, nell’iPhone poi.

La ricerca della perfezione. La perfezione non è di questo mondo, e neanche della Apple: non si spiegherebbe, altrimenti, perché l’iPhone 4 ha dato problemi di ricezione, o perché il servizio MobileMe si sia rivelato un buco nell’acqua (prontamente sostituito dal nuovo iCloud). Anelare alla perfezione, però, rende il mondo un posto migliore: Steve Jobs lo ha sempre fatto, e questo gli ha permesso di creare le macchine più affascinanti mai comparse sulla terra. Belle, bellissime anche nelle parti nascoste che nessuno vedrà mai (a meno che non siate assistenti tecnici). Ricercare la perfezione ha comportato per Jobs la creazione di sistemi chiusi e controllati, in cui hardware e software nascono e crescono insieme: esattamente l’opposto di quanto hanno fatto Microsoft e Google, creatori di sistemi operativi – Windows e Android – sicuramente più democratici e aperti. Ma – direbbe Jobs – lontani anni luce dalla perfezione.

L’importante è rialzarsi. La carriera di Jobs ha conosciuto molti alti e bassi. Tra i bassi, va ricordata senza dubbio la sua cacciata dalla Apple a metà degli anni ottanta: da un giorno con l’altro, il fondatore dell’azienda si è trovato senza lavoro. Avrebbe potuto mollare tutto e godersi i soldi che gli erano rimasti? Certo. Jobs, però, ha preferito fondare una nuova azienda con poche prospettive – la Next – e rilevare uno studio di computer grafica, la Pixar: in entrambi i casi, ha rischiato la bancarotta. Poi, un bel giorno, la Next è stata rilevata dalla Apple (riportando Jobs nel consiglio d’amministrazione della compagnia) e la Pixar si è inventata Toy Story. Il resto è storia. Morale? Non importa quanto brutta sia la caduta, bisogna subito tornare a investire nei propri sogni.

Il merito prima di tutto. Alla Apple non si entra con una raccomandazione. Steve Jobs, nella sua carriera, ha sempre preteso il massimo dai propri collaboratori, che nei mesi precedenti al lancio di un nuovo prodotto arrivavano a lavorare praticamente senza sosta. Chi ha resistito, come i fantomatici membri della squadra che ha realizzato il Macintosh, ricordano ancora con entusiasmo le settimane frenetiche trascorse in azienda. Jobs sapeva gratificare al massimo i propri uomini migliori, e non solo economicamente, ma allo stesso tempo poteva licenziare su due piedi le persone che reputava incompetenti: senza trovare giustificazioni, ma dicendo semplicemente quel che pensava di loro. No, la Apple non sarebbe mai potuta nascere in Italia.

Un amore sconfinato per il proprio lavoro. Isaacson lo ripete più volte: Steve Jobs ha realizzato prodotti straordinari perché era innamorato dei propri prodotti. Così i suoi collaboratori: chi ha lavorato all’iPhone, non vedeva l’ora di stringere in mano il proprio iPhone. Per lavorare bene, bisogna amare ciò che si fa: Jobs, dal Macintosh all’iPad passando per i film della Pixar, era il primo fan delle proprie creazioni.

Oltre il possibile. Per realizzare l’impossibile, bisogna pensare che sia possibile. Tutti i dipendenti Apple, almeno una volta, sono stati vittime del “campo di distorsione della realtà” generato da Steve Jobs: lui ti guardava e ti faceva credere che le sue richieste fossero realizzabili. Molto spesso non lo erano, eppure i suoi collaboratori sono riusciti a spingersi fino ai limiti del possibile per realizzare grandi innovazioni. Superare sé stessi: alla Apple succede ogni giorno, e questo l’ha portata a realizzare prodotti fantastici che la gente neanche sapeva di desiderare.

ilDemocratico.com